La domenica delle salme

La cover dell'album LP di Nuvole.

La cover dell’album LP di Nuvole.

Questo capolavoro che porta la firma di una consolidata collaborazione, quella tra Fabrizio de André, autore del testo, e di Mauro Pagani, sviluppatore della musica, si aggiudicò la Targa Tenco alla Migliore Canzone nel 1991. La domenica delle salme è la quarta traccia di Nuvole, album che venne pubblicato il 24 settembre 1990. Il preludio del brano è sviluppato attorno ad uno stralcio di Giugno (tratto da Le Stagioni opera XXXVIIa), del compositore russo Pëtr Il’ič Čaikovskij, ed è eseguito dal pianista Andrea Carcano. La durata complessiva della canzone è di sette minuti e trentacinque secondi. È stato girato anche un videoclip di questa canzone, la cui direzione è stata affidata al famoso regista e sceneggiatore italiano Gabriele Salvatores.

Il brano si presenta in un significato assai complesso ed articolato, e spesso il suo valore, inestimabile, offre alcuni spunti enigmatici. Una nota introduttiva la offre proprio Pagani1:

Quando il disco fu terminato Fabrizio se lo portò a casa e dopo qualche giorno mi telefonò. «Manca qualcosa, è tutto bello ma un po’ troppo leggero, manca quello che pensiamo davvero di tutto questo, manca quello che purtroppo ci è accaduto». Così qualche giorno dopo partimmo per la Sardegna, e dopo aver fatto il pieno di bottiglioni di Cannonau ci nascondemmo all’Agnata, la sua tenuta in Gallura. Faber tirò fuori uno dei suoi famosi quaderni, e le cento righe di appunti quasi casuali, raccolti in anni di letture di libri e quotidiani, in tre giorni diventarono la descrizione lucida e appassionata del silenzioso, doloroso e patetico colpo di Stato avvenuto intorno a noi, senza che ci accorgessimo di nulla, della vittoria silenziosa e definitiva della stupidità, e della mancanza di morale sopra ogni altra cosa. Della sconfitta della ragione e della speranza.
Credo che nel testo de La domenica delle salme ci sia tutta la grandezza di Fabrizio narratore. Ci sono tutti gli elementi per capire, ma tutto è raccontato, non ci sono sintesi o giudizi, che, come lui diceva spesso, nelle canzonette sono peccati mortali. La visione del tutto scaturisce dalla somma di tante piccole storie personali, nessuno grida in quella ridicola tragedia. Nessuno punta il dito, tutto si spiega da sé.
E nell’elenco dei patetici fallimenti, come tutti i grandi, Faber non dimentica il proprio e quello dei suoi colleghi canterini, giullari proni e consenzienti di una corte di despoti arroganti e senza qualità.

La domenica delle salme, è dunque un ritratto lucido e spietato, ma allo stesso tempo eterogeneo e variegato della società moderna. Tuttavia l’analisi che ne scaturisce è comunque unitaria e conforme, il cui scopo viene reso perfettamente dal cantautore2:

Era tutto quello che avevo dentro, e che sentivo di dover dire. È una canzone un po’ rabberciata, perché la musica l’abbiamo scritta dopo, l’abbiamo cucita sopra il testo, e si sente. L’ho scritta in modo piuttosto colto, anche per distanziarla da Don Raffaé. Sciascia diceva che la canzone, per essere utile, deve essere scritta da un uomo di cultura che sappia, però, esprimersi in maniera popolare. Però il disco mi sembrava un po’ fragilino, ed allora ho sentito il bisogno di impegnarmi, e l’ho fatto, svolazzando anche in alto. Ci sono molti riferimenti letterari. Ho voluto anche sfoggiare un po’ di cultura, perché in pochi, magari, hanno letto Oswald de Andrade. Ma non è sfoggio in realtà, perché mi è venuta piuttosto spontaneamente: sai, molto dipende dai panni di cui ci si veste quando si scrive. Ti metti nei panni di Don Vito Cacace e ti viene Don Raffae’, ti metti nei panni di chi vuol fare poesia e ti viene La domenica delle salme. Quanto al riferimento alla Baggina, non è la prima volta che mi capita di presagire qualcosa nelle mie canzoni.
Il riferimento a Curcio è preciso. Io dicevo semplicemente che non si capiva come mai si vedevano circolare per le nostre strade e per le nostre piazze, piazza Fontana compresa, delle persone che avevano sulla schiena assassinii plurimi e, appunto, come mai il signor Renato Curcio, che non ha mai ammazzato nessuno, era in galera da più lustri e nessuno si occupava di tirarlo fuori. Direi solamente per il fatto che non si era pentito, non si era dissociato, non aveva usufruito di quella nuova legge che, certamente, non fa parte del mio mondo morale… Il riferimento poi all’amputazione della gamba, voleva essere anche un richiamo alla condizione sanitaria delle nostre carceri.

Il carbonaro Pietro Maroncelli.

Il carbonaro Pietro Maroncelli.

Qui Fabrizio de André coglie l’occasione per disseminare alcuni riferimenti dei fatti avvenuti all’epoca, e inoltre egli da anche una sintetica motivazione delle citazioni letterarie presenti nel testo. In prima analisi cita l’ex brigatista Renato Curcio, protagonista, a suo dire, di un caso mediatico: è associato in questa vicenda al carbonaro Piero Maroncelli, il quale fu incarcerato nella fortezza dello Spielberg insieme a Silvio Pellico, dopo aver subito una condanna a morte commutata a 20 anni di prigione. Inoltre vuole denunciare lo stato in cui versano le carceri italiane, il cui emblema è rappresentato dall’allora prigione austriaca, dove le celle erano alquanto anguste e sconfortevoli, poste sotto l’egida delle guardie dai baffi di sego (in riferimento alla poesia satirica del 1845, Sant’Ambrogio, composta da Giuseppe Giusti). Ritornando a Renato Curcio si evidenzia la volontà di non dissociarsi dalle sue azioni, in quanto egli ritenne che i comportamenti adottati non potessero essere annullati, né tantomeno sarebbe mai tornato indietro per cambiarli. Infatti lui non usufruì mai dei privilegi statali e degli sconti penali, che furono invece concessi ai vari terroristi e mafiosi, grazie alla legge 6 febbraio 1980 n.15 (detta anche legge Cossiga), poi convertita nella legge 15 marzo 1991 n.82 (che regolarizzò per la prima volta la figura del collaboratore di giustizia). Nell’agosto 1991 inaspettatamente, la richiesta di grazia per il brigatista, arriverà niente meno che dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sottoposta però all’approvazione di tutte le forze politiche; questo gesto, considerato inusuale, scatenò un’ampia polemica tra la stampa nazionale.

Il Pio Albergo Trivulzio in una foto d'epoca.

Il Pio Albergo Trivulzio in una foto d’epoca.

Per quanto concerne invece la Baggina, ossia l’istituto ospedaliero per anziani di Milano Pio Albergo Trivulzio, il cantautore ha quasi intuito gli eventi incombenti. Infatti nel 1992, sulle iniziali indagini condotte dall’inquirente Antonio di Pietro sulla situazione che ruotava intorno al presidente socialista della struttura, Mario Chiesa, partì il processo di Tangentopoli, sconvolgendo l’entourage politico italiano fino a far sciogliere diversi partiti. Chiesa, denunciato dall’imprenditore Luca Magni, fu colto in flagranza il 17 febbraio 1992 mentre intascava una tangente di sette milioni di lire imposta a una società di pulizie per un appalto da 140 milioni. Nel 2011 il Pio Albergo Trivulzio fu oggetto di un altro scandalo, riguardante quello degli appartamenti di lusso concessi a persone influenti a prezzi di locazione bassissimi. Infatti il brano3:

È il ritratto dei diversi aspetti dell’Italia e dell’Occidente in genere alla fine degli anni Ottanta. Ancora una volta De André fa inconsciamente la parte del profeta con la chitarra, citando, all’inizio, la Baggina, cioè la Casa di riposo per anziani Pio Albergo Trivulzio di Milano, che nel giro di poco tempo diventerà celeberrima; di lì partirà la prima denuncia per corruzione di tangentopoli. Si passa poi ai semafori, occupati da immigrati polacchi con le loro spazzole da lavavetri, i loro mercatini e i loro traffici di prostituzione, per arrivare ai trafficanti di saponette diretti all’Est. Subito dopo vediamo “la scimmia del quarto Reich” simboleggiare la preoccupante ripresa di movimenti neonazisti in Germania e un po’ in tutta Europa; infine la piramide di Cheope, monumento tanto imponente quanto inutile, ricostruito oggi “schiavo per schiavo / comunista per comunista”. Uno sguardo è riservato ad una pagina ancora sanguinante del nostro recente passato: il terrorismo. Renato Curcio, il capo storico delle Brigate Rosse, è ritratto come un carbonaro, un prigioniero politico ancora in carcere, nonostante non abbia mai ammazzato nessuno, perché non ha voluto rinnegare il proprio passato. Il riferimento a Pietro Maroncelli attraverso l’amputazione della gamba riporta l’ambientazione nel secolo scorso, come a dire che le condizioni sanitarie in Italia, e in particolare nelle carceri, non sono migliorate poi molto. Nella canzone c’è anche posto per condannare alcuni colleghi, troppo propensi a cantare o a scrivere canzoni cambiando continuamente cavallo da battaglia a seconda dell’argomento più alla moda: “voi che avete cantato per i longobardi e i centralisti / per l’Amazzonia e per la pecunia”, denuncia tagliente, questa, e fatta da chi sicuramente aveva tutto il diritto di farla. Tra questa folla di personaggi passano, quasi non visti, gli addetti alla nostalgia, tra i quali “il cadavere di Utopia”: utopia della libertà, utopia dell’anarchia, cresciuta nel ’68 e morta in mezzo alla città moderna e civile, dove chi vuole rimanere libero lo può restare soltanto se ha un cannone nel cortile.

Oswald de Andrade in una foto degli anni venti.

Oswald de Andrade in una foto degli anni venti.

Il poeta e fondatore del modernismo brasiliano Oswald de Andrade, rientra anch’egli in questa canzone, poiché, dopo la sua adesione al Partito Comunista Brasiliano, partecipò attivamente alla lotta operaia negli anni che precedettero il colpo di Stato del 1937; Scrivendo per il giornale O Homen Livre (L’uomo libero) invitò ogni cittadino brasiliano a possedere, per l’appunto, un cannone nel cortile, in difesa della libertà. In sostanza è anche4:

Una durissima invettiva sulla falsa pace sociale raggiunta subito dopo la caduta del Muro di Berlino […]. Nel pezzo, per inciso, Fabrizio ha una delle sue intuizioni citando la Baggina, così come viene chiamata a Milano la Casa di riposo per anziani Pio Albergo Trivulzio. Due anni dopo, da lì, sarebbe esploso il caso di Tangentopoli che avrebbe spazzato i vecchi partiti.
Perché quella scimmia del Quarto Reich che balla sopra il muro? “Sono molto preoccupato, in Germania Est ci sono state violazioni di tombe ebraiche”, spiegava allora l’autore, “ed è una cosa che si sta diffondendo in tutta Europa; mi sembra un rigurgito nazista”. Tra epica e lirica c’è anche la piramide di Cheope: “Un monumento aberrante e inutile, direi berlusconiano”. Nella famosa domenica delle salme vengono inviati “fanti, cavalli, cani e un somaro ad annunciare l’amputazione della gamba di Renato Curcio, il carbonaro.”
Dice De André: “Curcio non si è dissociato, non ha approfittato di questa regola non morale; e vedo circolare gente che ha tanti omicidi sulle spalle… Curcio non ha ammazzato nessuno. E d’altra parte non vorrei che gli succedesse quanto accadde a Maroncelli nel carcere austriaco. Anche perché tengo a sottolineare l’aspetto sanitario delle carceri italiane!”.
Di chi è la colpa? De André si getta nel mucchio anche se non ha certo niente da spartire con i cantautori che hanno cantato “sui trampoli e in ginocchio / coi pianoforti a tracolla / vestiti da Pinocchio”; con chi ha cantato “per i longobardi, i centralisti, per l’Amazzonia, la pecunia nei palastilisti”. Erano gli anni dell’edonismo reaganiano e, in Italia, del craxismo. Al Palatrussardi alcuni socialisti intervenivano a tutti i grandi concerti in compagnia di bambole fasciate di rosso.

Il Palatrussardi (un tempo detto Palasharp), oggi abbandonato al suo destino.

Il Palatrussardi (un tempo detto Palasharp), oggi abbandonato al suo destino.

Infatti a cavallo tra gli anni ottanta e novanta del XX secolo si era ormai avviato quel processo di smantellamento dello Stato Sociale, dovuto all’aumento delle spese pubbliche, ai difficili periodi di stagflazione a partire dalla crisi energetica del 1973. Mentre dall’altra parte si procedeva alla privatizzazione degli enti pubblici economici e sociali dei diversi Paesi del blocco occidentale. Andava ad affermarsi la corrente anglosassone della politica neoliberista, dalla lady di ferro Margaret Thatcher al presidente statunitense Ronald Reagan. In Italia erano invece gli anni del pentapartito e del craxismo. Nasce un modello malato d’intendere la politica: i partitismi irriducibili e il culto dei personalismi, parimenti proporzionati agli interessi di coloro che, accontentandosi delle briciole, fanno di tutto per salire sul carro dei vincitori. A questi vanno ad aggiungersi i palastilisti, ossia coloro che in occasione di eventi mondani sbandierano il loro credo politico svuotato da ogni contenuto. Il Palatrussardi diventa il simbolo di questa decadenza dell’ideale: questa struttura è stata più volte a rischio di demolizione, poiché costruita abusivamente, mentre nei concerti si sosteneva una fantomatica purezza dell’ideale politico, altresì nei piani alti del potere si intrecciavano interessi più o meno occulti tra il mondo finanziario e quello politico, la cui torta veniva spartita con deleghe e ricavi economici. Un’altra analisi afferma che5:

La domenica delle salme è un grande affresco in stile Bruegel: in esso la supposta fine della storia viene smascherata per quello che è: un’altra delle tante menzogne che i poteri utilizzano per celare l’avidità oscena del loro agire. De André li vede tutti, non ne perde uno: “i trafficanti di saponette [che mettono] pancia verso est”, “la scimmia del quarto Reich [che balla] la polka sopra il muro”, “il ministro dei temporali / in un tripudio di tromboni / [che auspica] la democrazia / con la tovaglia sulla mani e le mani sui coglioni”.
La “fine della storia” è anche il tempo in cui “la piramide di Cheope / volle essere ricostruita in quel giorno di festa / masso per masso / schiavo per schiavo / comunista per comunista”; tanto non c’è ribellione: “La domenica delle salme / non si udirono fucilate / il gas esilarante / presidiava le strade / la domenica della salme / si portò via tutti i pensieri / e le regine del tua culpa / affollarono i parrucchieri”. E poi, per essere liberi, basta avere “un cannone nel cortile”. Sembra di vedere in questa umanità del dopo-genocidio la carta del Matto dei tarocchi, gli occhi al cielo e un piede già nel baratro a simboleggiare l’irresponsabilità di chi, accompagnando “il cadavere di Utopia”, canta “quant’è bella giovinezza / non vogliamo più invecchiare”.
E tra i responsabili di questa “pace terrificante”, gli stessi cantautori: “voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio / coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio / voi che avete cantato per i longobardi e i centralisti / per l’Amazzonia e per la pecunia / nei palastilisti / e dai padri Maristi / voi avevate voci potenti / lingue allenate a battere il tamburo / voi avevate voci potenti / adatte per il vaffanculo”. Come non rivedere, quasi fosse un vecchio documentario, le immagini di chi, nei decenni scorsi, guadagnava un applauso in più (con il corrispettivo aumento del conto in banca), recitando solidarietà con saluti a pugno chiuso e che oggi, magari, l’applauso in più e l’ingrossamento del portafoglio lo guadagna con monili tricolori all’occhiello della giacca?
Ma come, insieme a loro, non vedere anche tutti coloro i quali applaudivano o si indignavano a comando e che continuano ancora oggi, impotenti comparse, a “gonfiarsi” nelle piazze (il popolo delle piazze) e davanti ai tribunali “in un coro / di vibrante protesta” quando la politica della società dello spettacolo lo richieda – magari, guarda caso, proprio all’ora del TG?
Ma le nuvole, si sa, “vanno / vengono”, sono il simbolo arcaico di un divenire incessante sul quale l’uomo non ha alcun potere se non quello di imparare a “guardare” anche con la luce alterata di un cielo oscurato.
Ed è quello che Fabrizio De André fa con Anime salve (1996), la sua produzione più recente, dando ancora voce, e quindi spessore di dignità, a chi tra le nuvole deve comunque vivere subendone, spesso per primo, i rovesci.

Inoltre è proprio il titolo della canzone a fornirci un’altro interessante gioco di parole: infatti essa richiama due ricorrenze religiose, una celebrata nel calendario liturgico della dottrina cattolico-romana, la domenica delle palme, e l’altra invece è una festa mobile nel mese di novembre secondo il credo cattolico-protestante tedesco, la domenica dei morti (detto anche totensonntag), che appunto ricorda tutti i defunti.

Dunque il brano vuole richiamare un giorno di festa, dove vengono celebrati tutti i morti delle stragi che hanno sconvolto l’umanità nel XX secolo, mentre inconsciamente il mondo, a causa dell’assenza di ogni forma di protesta, è prossimo alla sua Passione, alla sua tribolazione prima della fine, come Gesù Cristo prima della sua crocefissione. In poche parole è un aspetto sottocutaneo assai angosciante quello che descrive Faber.

Lo smantellamento del Muro di Berlino nel novembre 1989.

Lo smantellamento del Muro di Berlino nel novembre 1989.

La Piramide di Cheope diventa il simbolo della nuova struttura gerarchica mondiale, rigida nel suo ammasso monumentale, costruita con quei massi che un tempo tracciavano la cortina di ferro. Un richiamo a qualcosa di ben più occulto, al cui disegno sono asserviti già gli schiavi del sistema capitalista, che, accecati dall’effimera produzione industriale del consumismo, sono costretti ad erigere questo verticalizzante edificio; mentre si festeggia l’ingresso dei comunisti, anch’essi resi schiavi, dell’appena disciolto blocco sovietico. In questa emblematica circostanza, al di là del brano e del video, Faber non vuole proporre alcun ritorno alle dittature comuniste, o più in generale ai regimi totalitari, nonché non è un atto d’accusa verso le Carte Costituzionali e le formulazioni teoriche che definiscono la democrazia. Altresì vuole essere una denuncia nei confronti di coloro i quali cercano di prevaricare sulla massa più debole, e quindi si configura un discorso di semplice uguaglianza sociale, senza colori né preferenze politiche, non tanto attraverso una ricerca della libertà, ma quanto invece una nuova consapevolezza della verità.

Tutto questo è reso più difficile, specie nell’epoca in cui ci troviamo, dove siamo bombardati da più parti da fonti d’informazione tese a mirare ognuna a una propria versione soggettiva della stessa verità; queste forme di verità che ci vengono propinate (senza il nostro esplicito consenso), sono al contempo difformi ma conviventi; quest’ultime, hanno tuttavia un uguale matrice, che è stata col tempo via via diversificata. Possiamo quindi dire che siamo tutti sostenitori della stessa verità, ma vista da lati e sfaccettature differenti, portando a una situazione in cui i detentori di queste libertà apparentemente irriducibili, arrivano spesso ad accorgersi, venendo a contatto tra loro, di avere più punti in comune di quanto pensassero. La strada da percorrere tuttavia è ancora ardua e ricca di ostacoli: come la stessa storia nazionale ci insegna, infatti, il rischio di ripetere gli errori già commessi è geneticamente endemico nel prototipo dell’italiano. A partire dalle stagioni stragiste degli anni di piombo, fino ad arrivare agli scandali legati ai fenomeni di corruzione clientelare, gli esempi negativi in questo senso si sprecano. Inoltre come la forma piramidale dei celebri monumenti egizi simboleggia una struttura gerarchica della società, dove pochi eletti hanno i privilegi e possono quindi prevaricare la massa, così nella moderna società il far west di scelte ed opinioni ha fatto sì che la diseguaglianza sociale, prima citata, venga mascherata e sia vista dai più come una scalata al potere in cui a tutti è concesso di raggiungere anche le posizioni più elevate. Ma solo chi ha davvero una propria coscienza civica, riesce a capire che questo è solo il risultato di un livellamento verso il basso dell’umanità. In conclusione riportiamo a seguire questa penultima citazione6:

Ecco un esempio di come anche il mondo della musica possa esprimere forti motivazioni di tipo morale e politico. Nell’album Le nuvole, del 1990, che la critica specializzata considera unanimamente un capolavoro della moderna canzone d’autore, Fabrizio De André ha inserito (tra tante altre invenzioni verbali e musicali) una polemica e tagliente invettiva, scritta in collaborazione con l’etnomusicologo Mauro Pagani, contro lo sfascio dell’Italia contemporanea (o, forse, di quella che potrebbe essere l’Italia in un immediato futuro).
Il testo possiede una sua valenza specifica, che è possibile cogliere anche indipendentemente dall’accompagnamento strumentale […]. Ricordiamo comunque che la strumentazione è limitata ad alcuni elementi essenziali: chitarra, violino e “kazoo” (un piccolo tubo di canna al cui interno una membrana vibra emettendo un suono aspro; si tratta di uno strumento “povero”, usato nei riti magici dell’Africa occidentale e diffuso nel sud degli Stati Uniti, poi adottato da jazzisti e cantanti folk).
L’esecuzione musicale, vibrante e quasi angosciante (ad un certo punto si avverte anche il sibilo di una sirena), si chiude con un assordante canto di cicale, che possiamo interpretare in due modi: come elemento di ulteriore polemica dell’autore nei confronti di una umanità che – nonostante tutto – vuole continuare irresponsabilmente a divertirsi, o come allusione al fatto che ogni forma di protesta contro i pericoli che ci sovrastano è ormai ridotta a un inutile e monotono canto, un fastidioso e petulante cicaleccio in sottofondo, del quale nessuno quasi più si accorge.
Dopo una strofa introduttiva (vv. 1-12), che ci presenta un uomo in fuga in una spettrale alba milanese, il testo si snoda attraverso tre segmenti di disuguale lunghezza (vv. 13-29, 38-58, 67-81), intervallati da un triplice ritornello di otto versi (vv. 30-37, 59-66, 82-89; il primo verso di ognuno è sempre uguale) e suggellati da una quartina di chiusura (vv. 90-93), che richiama vagamente il classico congedo della canzone petrarchesca. All’interno di questi otto segmenti complessivi, le scansioni narrative si susseguono ad intervalli di quattro versi (vv. 1-4, 5-8, 9-12, ecc.); si sottraggono a questa misura fissa soltanto due blocchi narrativi di cinque versi (vv. 25-28 e 42-46) e l’intero segmento dei vv. 67-81. Tali precisazioni ci sembrano necessarie per capire meglio il senso del componimento, del tutto privo di segni interpuntivi (sono soltanto segnalati col trattino i discorsi dei vv. 41, 51-54, 65-66, 72-81).
Andrà sottolineato anche, per un’ulteriore definizione degli aspetti formali del testo, l’uso della rima o, più frequentemente, dell’assonanza, tipica dei componimenti destinati ad essere musicati. De André ha sostenuto in un’intervista che l’uso della rima nasce dal bisogno di creare già nei versi un’unità armonica, un effetto sonoro indipendente da quello creato dalla melodia e dal canto. Ciò è particolarmente importante quando nella canzone (come in questo caso) si voglia privilegiare il contenuto: la rima e l’assonanza, infatti, servono a far sì che i versi rimangano meglio impressi nella memoria.
Il testo ci presenta dunque, in un accumulo di apparente incoerenza, lo scenario cupo di uno sfacelo imminente; lo stesso titolo, che stravolge la denominazione di una festosa ricorrenza della cristianità, è indicativo del senso di abbandono, di corruzione e di morte che incombe sulla realtà. Anziché essere il tradizionale giorno della spensieratezza, la Domenica celebra qui i momenti di una crisi irreversibile, fino al disfacimento finale delle salme delle vittime e alle esequie, paradossalmente dolci (cfr. i flauti del v. 84), degli ideali utopici di una società perfetta e felice.
I riferimenti, non sempre decifrabili con sicurezza, appaiono immersi in una calma sinistra e allucinante, in un caos metropolitano di folle anormalità (nella registrazione musicale si avverte anche in sottofondo, in corrispondenza dei vv. 59-66, il suono lacerante di una sirena): il crollo delle ideologie, la morte dei profughi, la folle allegria di chi ancora si illude, la retorica dei discorsi politici, i sussulti di un’estrema difesa individuale nell’imminenza della catastrofe (vv. 55-58), il dissolversi dei miti prima della pace terrificante (v. 89) che normalizzerà ogni cosa.
Il senso della resa collettiva viene espresso con un linguaggio che spazia dalla citazione colta (vv. 40, 65) all’espressione scurrile (vv. 15, 24, 50, 71, 81). Il tono prevalente è quello del duro sarcasmo e dell’aspra denuncia, uniche armi rimaste a chi può soltanto essere testimone dell’immenso naufragio della nostra cosiddetta civiltà, che ha provveduto ad annullare ogni voce di dissenso e a livellare ogni forma di antagonismo.
Ci sembra comunque che il testo esprima anche un convincimento di segno positivo. Se c’è ancora una coscienza civile, e se essa ancora riesce a provare rabbia e indignazione, non deve chiudersi in sé, nelle catacombe (v. 68). È vero, forse non è più possibile cambiare il mondo, come si intendeva fare nei tumultuosi decenni appena trascorsi; ma almeno evitiamo di pensare soltanto ai fatti nostri, perché l’esercizio dell’ironia feroce può essere l’antidoto più efficace contro lo squallore dilagante e l’arrogante ipocrisia del potere.

Fabrizio de André in concerto.

Fabrizio de André in concerto.

In un’intervista rilasciata da Fabrizio de André a Luciano Lanza, egli dichiara da un lato l’ineluttabilità della deriva dei costumi della democrazia, la quale viene vista non più come una forma di uguaglianza sociale, ma come una tecnocrazia concentrata nelle mani di pochi potenti; dall’altra parte, egli manifesta il suo sentire una forte responsabilità verso coloro che hanno vissuto con le sue note, e ancor di più, rendendovi partecipi i loro figli7:

[Domanda] Perché l’avete scritta?
[Risposta] Volevamo esprimere il nostro disappunto nei confronti della democrazia che stava diventando sempre meno democrazia. Democrazia reale non lo è mai stata, ma almeno si poteva sperare che resistesse come democrazia formale e invece si sta scoprendo che è un’oligarchia. Lo sapevamo tutti, però nessuno si peritava di dirlo. È una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più.
[Domanda] È dunque un atto d’accusa.
[Risposta] Sicuramente, e lo è anche nei nostri confronti. C’è una tirata contro i cantautori che avevano una voce potente per il vaffanculo, e invece non l’hanno fatto a tempo debito. Io credo che in qualche maniera la canzone possa influire sulla coscienza sociale, almeno a livello epidermico, Noto che ci sono tante persone che vengono nel camerino alla fine di ogni spettacolo e che mi dicono: siamo cresciuti con le tue canzoni e abbiamo fatto crescere i nostri figli con le tue canzoni. E non so fino a che punto sia una cosa giusta. Credo che in qualche misura le canzoni possano orientare le persone a pensare in un determinato modo e a comportarsi di conseguenza.

Cicale, cicale, cicale.


LA DOMENICA DELLE SALME

Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia di orzata
dove galleggiava Milano
non fu difficile seguirlo
il poeta della Baggina
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina
gli incendiarono il letto
sulla strada di Trento
riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento.
I polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime
lanciate verso il mare
i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est
chi si convertiva nel novanta
era dispensato nel novantuno
la scimmia del quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutto il culo
la piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista.
La domenica delle salme
non si udirono fucilate
il gas esilarante
presidiava le strade.
La domenica delle salme
si portò via tutti i pensieri
e le regine del tua culpa
affollarono i parrucchieri.
Nell’assolata galera patria
il secondo secondino
disse a “Baffi di Sego” che era il primo
si può fare domani sul far del mattino
e furono inviati messi
fanti cavalli cani ed un somaro
d annunciare l’amputazione della gamba
di Renato Curcio
il carbonaro
il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni
– voglio vivere in una città
dove all’ora dell’aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo –
a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile.
La domenica delle salme
nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
si sentiva cantare
“quant’è bella giovinezza
non vogliamo più invecchiare”.
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz’oretta poi ci mandarono a cagare
– voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
con i pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avevate voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo –
La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia
la domenica delle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c’erano segni
di una pace terrificante
mentre il cuore d’Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta.


Scritto da: Alessio Sacquegna & Massimo Trisolini


Note:

1 Mauro Pagani, Il sentiero delle parole, in AA.VV. Deandreide.

2 Doriano Fasoli, Fabrizio de André. Passaggi di Tempo.

3 Matteo Borsani e Luca Maciacchini, Anima Salva.

4 Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio de André.

5 Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, Fabrizio de André. Accordi eretici.

6 Paolo Briganti e Walter Spaggiari, Poesia & C.

7 Interivista di Luciano Lanza (1993), ora in Signorina Libertà, Signorina Anarchia.


Fonti:

Giuseppe Cirigliano – La domenica delle salme (link)

Canzoni contro la guerra – La domenica delle salme (link)

Author: Bistrò Charbonnier

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