Il Grand Tour settecentesco: verso la Terra d’Otranto

Intorno al XVIII secolo il circondariato della Terra d’Otranto era già da tempo considerato una regione periferica del Regno di Napoli. Molteplici i fattori che hanno causato questo rapido tracollo: dal punto di vista economico, infatti, il grande flusso del commercio marittimo si proiettava ormai da diversi secoli nelle grandi rotte transoceaniche, mentre il mar Mediterraneo – che per millenni era stato la culla di antichissime società – aveva subito in questa fase un rapido declassamento. Questo fattore ha un’influenza negativa sulle popolazioni autoctone del bacino mediterraneo, che subiscono un intorpidimento culturale e sociale.
Sotto l’aspetto politico, invece, diverse congetture sono state avanzate dalla storiografia tradizionale con una certa ortodossia, cercando di motivare il malessere regionale che attraversa la Terra d’Otranto mediante la diffusione di critiche antifeudali e anticuriali. In realtà, proprio in questo particolare periodo storico, avviene una riforma politica attuata saggiamente dalle amministrazioni reali di Carlo di Borbone e di Ferdinando IV di Napoli: essi riescono a ridimensionare gli ampi privilegi precedentemente concessi al clero e alla nobiltà, allo scopo di accentrare il potere politico nelle nascenti strutture amministrative dello Stato. Dalla loro parte, invece, le nuove generazioni nobiliari, congiunte all’alto clero, avevano avviato già da tempo un processo di avvicinamento solidale nei confronti di quelle classi cetuali più deboli. Si tratta di un processo che viene motivato non solo da finalità di lucro, ma assume anche aspetti di necessaria convenienza e convivialità, determinando la formazione delle nuove classi dirigenziali salentine, composte da piccoli e medi borghesi e da aristocratici intellettualmente affini alla corrente illuministica.

Carta geografica del Regno di Napoli, in evidenza la penisola salentina (1778). Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Carta geografica del Regno di Napoli, in evidenza la penisola salentina (1778). Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Ma prima di intraprendere questo percorso antropologico sulla società salentina del XVIII secolo – che rimando alle prossime trattazioni –, come si presentava in quel tempo la Terra d’Otranto agli occhi dei forestieri? A questa domanda risponde il Grand Tour europeo, che in quel secolo si era radicato come una consuetudine, ad appannaggio della classe aristocratica dell’Europa nord-occidentale. Ed è proprio attraverso il lascito di queste tracce, di polvere e di fango, che – come viaggiatori nel tempo – si andrà alla scoperta del Tacco d’Italia nel settecento.

IL GRAND TOUR SETTECENTESCO: VERSO LA TERRA D’OTRANTO

Da premettere che il Grand Tour settecentesco – come già detto – interessava i giovani aristocratici del nord Europa, aventi quasi tutti tra i 18 e i 25 anni. Una delle mete più visitate era l’Italia: questi viaggiatori subivano il fascino di una natura rigogliosa, intrisa dalle bellezze di un patrimonio storico ed artistico di cui lo Stivale era stato per secoli un geloso custode.

Incisione del XVIII secolo che raffigura i primi scavi archeologici di Pompei.

Incisione del XVIII secolo che raffigura i primi scavi archeologici di Pompei.

A questo si aggiungevano le molte identità folkloristiche, tra tradizioni culturali e religiose, che rendevano unica la penisola italiana. A dare ulteriore voce al fenomeno del Grand Tour nel Bel Paese, fu la scoperta di due antiche urbs romane, quella di Ercolano (1738) e di Pompei (1748). Era solito per i viaggiatori riportare le loro dirette esperienze in appositi diari e corrispondenze, mentre andava a diffondersi il vedutismo, che spingerà molti artisti ad immortalare squarci di città italiane, mediante dipinti o incisioni ad inchiostro. Se questo corollario di viaggi è sinonimo di un lascito ben importante, in cui viene ritratta – antropologicamente parlando – un’immagine dettagliata dell’Italia settecentesca, attraverso le impressioni dei molti visitatori stranieri, la tappa conclusiva del Grand Tour risultava essere quasi sempre la capitale partenopea; infatti furono ben pochi i viaggiatori europei che decisero di spingersi nei sperduti meandri del Regno di Napoli.
Alcuni di questi avventurieri avvertivano addirittura l’obbligo morale di giustificare nelle proprie memorie il motivo per cui erano spinti a prolungare il proprio percorso. Tra questi vi era Johann Heinrich Bartels che aveva deciso di intraprendere nel 1785 un viaggio  verso la Calabria e la Sicilia, affermando di dover soddisfare il proprio desiderio di rendersi conto di persona del degrado sociale, civile e culturale di tali regioni. Molti viaggiatori stranieri rinunciarono ad oltrepassare Napoli per paura: avventurarsi in territori abitati dai cosiddetti cafoni, in luoghi da tempo addormentati in un lungo letargo, si riassumeva nel timore di essere facile preda di malfattori e briganti. Quando nel 1785 Carl Ulysses von Salis-Marschlins arriva in Terra d’Otranto, egli non può fare a meno di trascrivere quanto gli era stato riferito1:

Sino a cinquant’anni fa, le vie erano in tale stato, che un uomo il quale doveva recarsi per terra da Otranto a Napoli, faceva prima il suo testamento, e si congedava solennemente dai parenti e dagli amici: e questa precauzione era necessaria tanto per le condizioni orribili delle strade, quanto per la nessuna sicurezza di esse. E colui che compiva felicemente il suo viaggio, era festeggiato ed accolto al suo ritorno come un nuovo Colombo.

Il piccolo centro di Squinzano in una illustrazione del 1778. Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Il piccolo centro di Squinzano in un’incisione del 1778. Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Benché fosse consuetudine del tempo viaggiare con un drappello di uomini armati, tuttavia altri viaggiatori rinunciarono a simile privilegio: tra questi c’erano Friedrich Leopold Stolberg e Johann Georg Jacobi; entrambi compagni di viaggio, decisero d’intraprendere nel 1792 l’itinerario pugliese. Nei loro scritti riportarono di essersi imbattuti spesso in soldati dei reali eserciti borbonici mentre scortavano dei detenuti, e che avevano sentito dire che le prigioni pugliesi straripavano di predoni di strada2.
Tuttavia il vero disagio era la cattiva connessione viaria che serviva il regno. Nel 1767 il prussiano Johann Hermann von Riedesel barone di Eisenbach, che viaggiava insieme all’amico appassionato di grecofilia, Johann Joachim Winckelmann, si lamentava di essere costretto a viaggiare a cavallo, poiché i tratti stradali tra Napoli e la Terra d’Otranto non consentivano il passaggio delle carrozze3. Eppure, nonostante i disagi, l’irlandese George Berkeley visiterà per ben due volte l’Italia meridionale (1717), ancor prima che i sovrani borbonici si adoperassero alla miglioria dei tratti stradali, al fine di rendere più agibile il collegamento tra il litorale tirrenico e l’area jonico-adriatica. Tuttavia non si può parlare di un grande miglioramento: infatti, quando nel dicembre 1798 il re Ferdinando IV fuggì in Sicilia, con la conseguente nascita della Repubblica Partenopea, istituita dal generale francese Championnet il 23 gennaio dell’anno seguente, la notizia giunse a Lecce solo nei primi giorni del febbraio 1799. 

Veduta del porto di Taranto nel 1778. Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Veduta del porto di Taranto nel 1778. Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Oltre al già citato George Berkeley, primo vero pioniere del Grand Tour europeo in Terra d’Otranto, e ai vari von Riedesel, Salis-Marschlins, Stolberg e Jacobi, nel 1777 toccò all’inglese Henry Swinburne, il quale offre delle riflessioni non dissimili da quelle del barone di Eisenbach, proponendo però un diario di viaggio dal classico gusto illuminista. Un anno dopo, nel 1778, è il francese Dominique Vivant Denon, che, ingaggiato dall’abate Jean-Claude Richard de Saint-Non, guiderà un gruppo di disegnatori alla scoperta del Regno di Napoli. Si tratta della più imponente opera illustrata del regno borbonico, pubblicata tra il 1781 ed il 1785, dove vengono ritratti magnifici squarci meridionali dalla bellezza irregolare, immersi nell’estetica di una natura capace di sovvertire i canoni tradizionali. Anche Ferdinando IV di Napoli, nonostante fosse il sovrano, non aveva mai avuto il privilegio di vedere la Terra d’Otranto, ma ebbe modo di visitarla nel 1797, in occasione delle nozze del figlio Francesco con Clementina d’Austria, che si sarebbero svolte a Foggia. 

Il Castello di Brindisi nel 1778. Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Il Castello di Brindisi nel 1778. Fonte: Voyage Pittoresque di Saint-Non.

Nel 1791 Giuseppe Maria Galanti, in seguito ad un suo viaggio personale in Puglia, redasse una relazione sullo stato in cui versava la Terra d’Otranto. Benché fosse un fedelissimo della Corona, i sospetti maturati dal sovrano dopo la rivoluzione francese, fecero in modo di allontanarlo dal governo, insieme a molti altri intellettuali illuministi. In precedenza, accanto ad altri illustri uomini dell’illuminismo partenopeo – Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri, Melchiorre Delfico e Domenico Grimaldi –, era stato nominato dal primo ministro John Acton assessore al Supremo Consiglio delle Finanze.
Le impressioni riprese dalla Relazione di Giuseppe Maria Galanti, benché descrivono la Terra d’Otranto con colori foschi, collocandola tra le provincie più sprovvedute e arretrate del Regno di Napoli, esprimomo su grandi linee la società salentina di fine Settecento4:

Gli abitanti di questa provincia sono di assai benigna natura, e per effetto del clima sono più dominati dalla voluttà, che da feroci passioni. Sebbene disposti all’inerzia, sono perspicaci, ufficiosi, volubili, facili ad irritarsi, facili a riconciliarsi. Quelli di Martina, di Massafra, di Castellaneta, che abitano verso le montagne, mostrano un ingegno meno benigno ed un carattere facinoroso […] I contadini sono ignoranti ed ostinati nelle loro maniere e, sebbene siano oppressi, non sono in tutto miserabili […]. Fra la plebe rustica si adottano sempre più i vizi della plebe urbana […] si fa uso del caffè e dell’acquavite. […]I popoli di questa provincia hanno del genio, ma senza regola. […] Hanno un gusto dominante per le fabbriche grandiose, per i campanili, e per le prospettive dei templi; ma […] gli edifici sono caricati all’eccesso di ornamenti, onde sono di un gusto detestabile. […] Generalmente nella città la popolazione è distinta in tre classi, che portano una divisione degli animi […]. Domina molto lo spirito di nobiltà, il quale si restringe per lo più alla vanità e al disprezzo verso il negoziante e l’agricoltore. Questo spirito di vanità ha penetrato nelle altre classi; quelli che diconsi del secondo ceto curano più il fasto che l’industria, e tutti voglio essere trattati di eccellenza. Una delle prerogative della nobiltà è quella di essere oziosa e di passare la vita giocando, e questa sembra essere una prerogativa universale.

A fare eco alle impressioni del Galanti vi sono anche quelle dei cronisti locali, come il Piccinni, i quali forniscono un immagine perennemente in festa delle piccole realtà salentine: proibire “le maschere, li festini e li teatri ed ogni sorte di pubblici divertimenti” è visto come un cattivo presagio dal “cuore dei leccesi5. Mentre George Berkeley può solamente desumere il carattere festoso dei cittadini leccesi attraverso gli ornamenti architettonici che incorniciano il capoluogo salentino; in una lettera indirizzata ad un suo amico, Percival, – datata 8 aprile 1717, e scritta nel capoluogo partenopeo – egli afferma6:

Signore, sono appena rientrato da un viaggio per le terre più remote e sconosciute d’Italia. Vostra Signoria conosce perfettamente le città più decantate, ma forse per la prima volta sente dire che la più bella città italiana si trova in un lontano angolo del tacco. Lecce è, per i suoi ornamenti architettonici, la città più fastosa che abbia mai visto.

Se per Berkeley Lecce è la più bella città italiana, tanto da paragonarla in bellezza e in dimensioni a Firenze – ed è forse da qui che nasce il nomignolo affibbiato al capoluogo salentino, chiamata la Firenze del Sud –, i suoi abitanti sono ritratti dal Galanti e dal Piccinni come amanti della vita mondana. Tuttavia le varie analisi antropologiche sulla Terra d’Otranto del XVIII secolo saranno approfondite nel prossimo episodio de Il Grand Tour settecentesco in Terra d’Otranto (vedi la seconda parte), alternandosi tra una perplessa critica ed un’entusiasta ammirazione dei viaggiatori stranieri che l’hanno visitata.


NOTE

1 C. U. de Salis-Marschlins, Viaggio nel regno di Napoli, G. Donno (a cura di), Cavallino di Lecce, 1979, pag. 66
2 A. Cecere, Il mito del Sud nella letteratura di viaggio inglese, in Idea e realtà dell’Europa: lingue, letterature, ideologie. Atti del Convegno organizzato dalla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Bari, 4-6 maggio 1992. Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Terza serie, 1991-1994/XI, Fasano, 1995, p. 229
3 J. H. von Riedesel, Nella Puglia del Settecento, T. Pedio (a cura di), Cavallino di Lecce, 1979, p. 79
4 G. M. Galanti, Relazioni sulla Puglia del Settecento, F. Panareo (a cura di), Lecce, 1984, pagg. 59-65
5 F. A. Piccinni, Notizie di Lecce (1723-1779), P. Palumbo (a cura di), in Rivista Storica Salentina, p. 142
6 M. S. Quarta, Lecce l’armoniosa. Le coste riscoperte. Il ritorno della Terra d’Otranto, in Tante Italie Una Italia.  Dinamiche territoriali e identitarie (Volume II – Il Mezzogiorno. La modernizzazione smarrita), C. Muscarà, G. Scaramellini, I. Talia (a cura di), Franco Angeli edizioni, Milano, 2011, pag. 78


BIBLIOGRAFIA

 

Author: Alessio Sacquegna

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