Il Grand Tour settecentesco: Lecce

La seconda tappa del Grand Tour settecentesco in Terra d’Otranto è il capoluogo salentino: Lecce. Prima di intraprendere questo viaggio tra i vicoli settecenteschi della splendida città barocca è doveroso fare una breve considerazione su ciò che potrebbe essere oggetto di dibattito: nel XVIII secolo non si aveva molta conoscenza sull’origine di Lecce, tanto meno della sua antica storia. Infatti i viaggiatori del Grand Tour si sono cimentati ad affrontare una tematica così delicata al punto da riportare nelle loro memorie alcune grossolane inesattezze. Ma si voglia spezzare una lancia a loro favore, basta considerare che alcune argomentazioni riguardanti la storia della città sono tuttora da considerarsi incerte. È certo però che anticamente Lecce era chiamata Lupiae o Lupia, mentre Aletium o Aletum corrisponderebbe invece ad Alezio, un piccolo comune situato nella provincia salentina vicino Gallipoli. Il britannico Henry Swinburne invece commette un errore piuttosto grossolano: egli identifica San Nicola come il santo patrono della città; in realtà è noto che il protettore della città è Sant’Oronzo, primo vescovo e martire del capoluogo salentino, nativo della stessa Rudiae che dette i natali al poeta, drammaturgo e scrittore romano Quinto Ennio. Ed è proprio quest’antico villaggio, Rudiae, a fornire un altro enigma: la sua reale posizione è stata ampiamente dibattuta nel corso dei secoli da ricercatori ed intellettuali, mentre oggi è noto che i resti archeologici di quest’antico centro sono situati nel feudo comunale di Lecce, sulla strada che conduce per San Pietro in Lama.

Uno squarcio del centro storico di Lecce.

Uno squarcio del centro storico di Lecce.

Come si vedrà in seguito, Lecce nel Settecento era considerata una città moderna, talvolta eccessivamente sofisticata; ma in questo particolare periodo storico aveva acquisito molta notorietà, tanto da essere considerata da molti, in termini d’importanza,  seconda solo alla capitale del Regno di Napoli. Costruita interamente ex novo non presentava alcuna traccia di antichità, e ciò era dovuto dal fatto che non erano state ancora rinvenute le vestigia romane dell’anfiteatro e del teatro (vedi anche Le trasformazioni urbanistiche di Piazza Sant’Oronzo). Oggi Lecce, che è capoluogo dell’omonima provincia, è una delle più interessanti città nel panorama artistico italiano, e questo riconoscimento gli è concesso soprattutto dal tipico barocco leccese che connota le facciate degli edifici del centro storico (vedi L’architettura del barocco leccese). Attualmente risiedono nel capoluogo salentino 89.598 abitanti1.

LECCE NEL SETTECENTO

ATTRAVERSO LE MEMORIE DEI VIAGGIATORI

Breve descrizione della città

Nel XVIII secolo la ridente cittadina salentina era ancora circondata interamente da un’imponente cinta muraria difensiva; questa aveva quattro ingressi: due erano posti a nord, ossia Porta Napoli e Porta Rudiae, mentre gli altri due sorgevano a sud, cioé Porta San Biagio e Porta San Martino (demolita nel 1826). Sempre nell’area meridionale della città, tra questi due accessi, era situato in difesa della città il solido castello cinquecentesco, fatto erigere tra il 1539 ed il 1549 da Carlo V d’Asburgo sulle fondamenta di un’altra antica roccaforte principesca. Come accennato già nell’introduzione, dell’antica Lupiae non vi era rimasta alcuna traccia: infatti, solamente nel XX secolo, saranno scoperti l’anfiteatro e il teatro di epoca romana (rispettivamente nel 1904 e nel 1929). George Berkeley, arrivato in città il 27 maggio 1717, descrive così la città settecentesca:

Lecce. Aletium per Tolomeo, per Strabone Lupine. Anticamente era chiamata Alepinum Licinum ma anche Lupino, come è possibile leggere su quattro iscrizioni che si dice siano state ritrovate qui. […] Lecce è collocata su una pianura piacevole, abbondano frutta e bestiame. Il perimetro misura tre miglia, è molto spaziosa e le fortificazioni sono di tipo moderno. Quattro grandi porte. […] Non ci sono resti di antichità; come grandezza, Lecce sembra simile a Firenze, ma le case sono in genere più basse.

Cinquant’anni dopo la visita del filosofo irlandese, arriva in città Johann Hermann von Riedesel barone di Eisenbach. Le sue analisi, spesso incentrate su argomentazioni storiche ed archeologiche, saranno mortificate in questa Lecce così moderna, e dunque – come si vedrà – sarà più propenso a fare considerazioni di tipo artistico ed economico:

“Io non mi metterò ad esaminare la questione, se cioè il luogo, in cui si trova attualmente Lecce, sia l’istesso in cui si trovava l’antica Lupatia o pur no. Per lo meno non ne esiste nessun vestigio: vi si sono trovati soltanto dei vasi campani. […] Lecce è, dopo Napoli, la più bella e la più grande città del reame.

Panorama di Lecce, xilografia, tratta da L'illustrazione italiana, 1889.

Panorama di Lecce, xilografia, tratta da L’illustrazione italiana, 1889.

Anche Jean-Claude Richard de Saint-Non conferma l’assenza di monumenti antichi. Nelle proprie memorie riporta anche un interessante aneddoto storico riguardante gli antichi insediamenti di Lupiae e di Rudiae. Infatti egli racconta della conquista e la successiva distruzione di ambedue le città da parte di Guglielmo il Malo, re di Sicilia, che tra il 1155 ed il 1158 si trovava in Puglia per sopprimere le rivolte filobizantine scoppiate nell’antico Thema di Langobardia:

Noi vediamo Lecce la cui vista è di gran lunga piatta e così estesa che noi potremmo disegnarla su un nastro di ontano. […] Si dice che Lecce, che si potrebbe credere essere la città di Aletum o Aletium, era collegata tramite un sotterraneo a Rugia o Rudia, un’antica città distrutta a tre miglia da questa. Si pretende che queste due città, unite da interessi, si andavano reciprocamente in soccorso, e che Guglielmo il Malo, re di Sicilia, le abbia poste sotto assedio, per impossessarsi sia dell’una che dell’altra, e dopo una lunga difesa da parte degli assediati, lui infine scoprì e ruppe la comunicazione e il soccorso che queste si facevano. Non resta più niente di Rugia, se non le tracce del suo recinto e qualche tomba sotterranea dove sono stati trovati dei vasi, le cui figure sono greche. A quanto pare è stato Guglielmo il Malo a distruggere questa città e senza alcun dubbio quella di Lecce nel XII secolo; poiché il più antico degli edifici è del tempo di Giovanna I, regina di Napoli, nel XIV secolo.

Antica mappa di Lecce, quando era ancora chiusa dentro la cinta muraria.

Antica mappa di Lecce, quando era ancora chiusa dentro la cinta muraria.

Henry Swinburne, invece, riassume molto brevemente la cronologia delle casate che hanno posseduto il titolo nobiliare garante le pretese feudali sulla Contea di Lecce. Questa venne istituita dai normanni nel 1055 sotto la dinastia degli Altavilla, ma decadde nel 1463 quando re Ferrante d’Aragona riuscì ad ottenere il fidomaggio dai figli illegittimi di Giovanni Antonio Orsini del Balzo, in quanto aveva sposato la nipote di quest’ultimo, Isabella di Chiaromonte, la quale era stata designata dallo zio come unica erede legittima dei suoi possedimenti:

Lecce, capitale della Terra d’Otranto, sede del suo tribunale, e la seconda città del reame, è meglio pavimentata e meglio costruita di alcune città della provincia. […] C’era una volta a Lecce o nei pressi di Lecce, una colonia romana, chiamata Lupiae; qualche geografo l’ha confusa con Rudiae, luogo di nascita di Ennio, che è vissuto circa due secoli prima di Gesù Cristo, e che componeva differenti poemi, di cui è sfuggito qualche frammento dalla distruzione del tempo. Subito dopo l’istituzione dei Normanni, i conti ricevettero l’infeudazione della signorile terra di Lecce; una delle loro figlie ha dato un figlio naturale a Re Ruggero, di nome Tancredi, che alla fine divenne re delle Due Sicilie. Prima della sua elezione alla corona, egli godeva dei suoi beni materni e fu uno dei principali fautori della città. […] Albinia, figlia di Tancredi, trasferirà la contea di Lecce a Gualtieri III di Brienne, suo marito, e l’ereditiera della casata dei Brienne fu sposata da Gualtieri d’Enghien. Maria d’Enghien, l’ultima di questa casata, fu donata da Luigi d’Angiò a don Raimondo Orsini del Balzo, un avventuriero di fortuna che poi è diventato il principe di Taranto. Dopo gli ultimi eredi, che morirono senza figli, Lecce e tutti i loro beni furono annessi ai domini della corona.

Impressioni sull’architettura barocca

Particolare della chiesa di San Matteo.

Particolare della chiesa di San Matteo.

Costruita interamente ex novo sul un’ossatura architettonica tipicamente rinascimentale, nel Settecento si era già consolidata da qualche decennio la sfarzosa immagine di Lecce: la fisionomia della città era basata sui canoni del tipico barocco locale, ricco di minuziosi dettagli scultorei che adornavano i prospetti degli edifici. Si avverte anche un forte richiamo al precedente dominio spagnolo, in quanto si manifesta nell’architettura locale una certa influenza dello stile plateresco. Nella prima metà del XVIII secolo il barocco era da ritenersi ancora un’espressione moderna, ed infatti il primo viaggiatore del Grand Tour, l’irlandese George Berkeley, si definì “interdetto” dalla sontuosità e dalla bellezza espressa da un simile gusto architettonico. Viceversa, la seconda metà del secolo vide un rapido declino di questo genere, e nonostante non mancheranno esempi che lo richiamano (ad esempio il Rococò ed il Tardobarocco), andava progressivamente ad affermarsi il neoclassicismo. Dunque non è un caso che gli altri viaggiatori, quasi certamente influenzati dalla nascente moda del proprio tempo, si discostano dall’opinione di Berkeley, dimostrando di non gradire l’eccesso e la sfarzosità del barocco leccese, benché riconoscono la qualità e la solidità con cui è stata progettata l’intera città. Dalle memorie del teologo irlandese, dunque, è possibile ricavare la sua meraviglia nel scoprire la bellezza architettonica offerta dal capoluogo salentino:  

Come a Roma, le facciate delle chiese sono tutte adornate con colonne, statue, bassorilievi eccetera. […] Notevoli edifici in pietra tagliata, finestre decorate; […] colonne o pilastri, per la maggior parte di ordine corinzio o composito, festoni, vasi da fiori, puttini ed altri animali si affollano sui capitelli al di sopra del fogliame. Doppio fregio a rilievo, cioè, oltre al fregio semplice, ne appare un altro tra i capitelli. […] Le porte d’ingresso sono di ordine corinzio e composito, mentre le strade sono ampie, belle, ma tortuose; parecchie piazze, facciate di chiese, eccetera. […] Anche le case più piccole sono costruite con buon gusto, da nessuna parte ho visto con tanta frequenza porte e finestre decorate, balconi, colonne e balaustre interamente in pietra; […] Le case hanno di solito due piani, aspetto elegante e altezza ben proporzionata rispetto all’ampiezza delle strade. Parecchi cancelli, molto belli e decorati con gusto. Interdetto.

Castello Carlo V visto dall'alto.

Castello Carlo V visto dall’alto.

Nel 1767 è Johann Hermann von Riedesel a riportare nelle sue memorie la propria impressione:

Le vie sono larghe e ben pavimentate; le chiese, come le case, sono costruite con una pietra bianca che si trova sul posto. […] Questa città moderna è una delle più belle che esistono, anche se è stata costruita con poco gusto; […] Sventuratamente a Lecce, in fatto di architettura, regna il gusto il più detestabile: è il gotico spinto agli estremi, e tutti questi ornamenti minuti e moltiplicati all’infinito, di cui è sovraccarico, sono insopportabili.

Della stessa opinione è il britannico Henry Swinburne:

Se questa architettura avesse una piccolissima ragione di gusto, le costruzioni avrebbero fatto una bellissima figura, perché la pietra del paese è d’una bellezza bianca.

Decisamente più severo è l’abate francese Jean-Claude Richard de Saint-Non, trascinato da una critica ancor più negativa, non solo nei confronti dell’architettura locale ma anche della stessa città:

C’è, disse uno, una delle più belle città del Regno di Napoli, e ci sono forse in effetti le migliori costruzioni. Tutte le case, tutte le Chiese sono belle; or bene loro sono tutte brutte, se non fosse che sono ben costruite e molto decorate, non ce n’è una che non sia di buon gusto. […] La bellezza della pietra e del materiale che qui è impiegata gli dona la più grande apparenza, ma l’utilizzo che si è fatto è detestabile: tutti gli edifici sono stracarichi del più sgradevole e della più inutile scultura. E questo è ancor più spiacevole, poiché la città è costruita molto solidamente. La si guarda come la più bella del Reame dopo Napoli. Si osa lo stesso compararla a quest’ultima, se è permesso di comparare a Napoli una città senza porto, senza fiume, senza grandi strade, senza popolazione e persino senza commercio, se non fosse per i merletti piuttosto grossolani che si fabbricano a Lecce e ai quali noi vediamo lavorare tutte le donne della città.

L’architettura religiosa: da Santa Croce a Piazza Sant’Oronzo

Il susseguirsi delle dominazioni normanne, angioine e aragonesi confluirono a Lecce in un misto d’influenze architettoniche, le quali hanno avuto una maggiore espressione nelle strutture di dominio pubblico ed ecclesiastico. L’edilizia nel capoluogo della Terra d’Otranto ebbe tuttavia un ulteriore sviluppo, sia religioso quanto militare, dopo il 1571, anno in cui la battaglia di Lepanto registra la fine delle incursioni saracene e turco-ottomane sulle coste salentine. Questa rinascita venne promossa con particolare interesse da Carlo V d’Asburgo, trasformando Lecce in un noto centro commerciale nell’area adriatica, benché la città era sprovvista di sbocchi sul mare. Infatti nel XVI secolo era presente a Lecce una numerosa colonia veneziana, residente nei pressi della Piazza dei mercanti – ovvero l’attuale Piazza Sant’Oronzo –, nel cosiddetto quartiere veneziano, il quale scomparve agli inizi dell’Ottocento. Testimoni dell’influenza veneziana nel capoluogo della Terra d’Otranto è il Palazzo del Seggio (anche detto Sedile) e l’adiacente chiesetta di San Marco, situati nella piazza centrale. Questa piccola cappella, edificata nel 1543, ha un ingresso decorato con motivi a candelabri ed intrecci viminei, ed il prospetto principale è dominato da un leone alato con la Bibbia aperta – nell’iconografia veneziana è simbolo di pace –, che richiama l’evangelista San Marco, patrono di Venezia e Santo protettore della Serenissima. Invece il Sedile fu fatto erigere dal sindaco veneziano Pietro Mocenigo nel 1592, sulle ceneri di una precedente struttura, abbattuta nel 1588. Tra i più antichi edifici religiosi presenti a Lecce c’è la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo, fatta erigere dal re normanno Tancredi d’Altavilla nel 1180, e venne in seguito restaurata nel 1716 con un’impronta barocca. In ogni caso, gran parte delle chiese della città, le quali hanno un tipico impianto medioevale o rinascimentale, subirono delle ristrutturazioni, almeno nei prospetti delle facciate, secondo i criteri di quella moda seicentesca, ovvero il barocco. Una parziale descrizione del panorama architettonico religioso settecentesco la offre Berkeley:

Sulle facciate delle chiese e dei conventi appare una straordinaria dovizia di ornamenti. […] L’architettura presenta svettamenti temerari, come ad esempio la facciata del monastero di San Matteo. […] Mi ha colpito la chiesa dei Gesuiti, quella dei Domenicani, il monastero di Santa Teresa, il convento dei benedettini, quello dei carmelitani e il monastero di Santa Chiara. Ho osservato con attenzione questi e tanti altri edifici, molti dei quali ricchi di ornamenti distinti tra loro, benché in alcuni casi si ammassino senza ordine.[…] In nessun altra parte dell’Italia si può apprezzare un gusto architettonico così ben definito.

Anche von Riedesel, nonostante non apprezza particolarmente lo stile barocco, è intento a elencare quegli edifici religiosi, che secondo la sua opinione, meritano almeno di essere visitati:

Fra le tante chiese che conta Lecce il duomo, quella dei Gesuiti, dei Teatini, delle Carmelitane, e dei Celestini meritano di essere vedute.

Nel Settecento a Lecce erano presenti molti ordini religiosi, i quali dimoravano in conventi e sedi sparse a macchia di leopardo sul territorio cittadino. Una di queste era la Congregazione dei Celestini, detta anche Ordo Coelestinorum, che inizialmente venne inquadrata nell’ordine benedettino da papa Urbano IV con la bolla Cum Sicut dell’1 giugno 1263, ma assunse l’attuale nome dopo il pontificato e la canonizzazione del loro fondatore, papa Celestino V, deceduto nel 1294. L’ordine venne definitivamente soppresso nel 1807.
La prima dimora dei Celestini a Lecce fu fatta costruire nel 1352 da Gualtieri VI di Brienne. Nel 1510 si procedette alla demolizione del quartiere ebraico adiacente al monastero allo scopo di reperire terreni edificabili per volere di Ferdinando III di Napoli, insignito dal papa guerriero Giulio II col titolo di Re Cattolico. Tale manovra consentì a Carlo V d’Asburgo nel 1549, in seguito all’ampliamento delle mura cittadine e alla costruzione del nuovo castello, di demolire il monastero per costruire un nuovo complesso religioso, ovvero il Palazzo dei Celestini – attuale sede degli uffici della prefettura e della provincia – e della basilica di Santa Croce. Nel 1717 George Berkeley riporta la seguente descrizione dei due edifici:

Cavalli, figure umane, grifi, orsi, eccetera, sostengono il balcone della chiesa dei Benedettini con una finestra rotonda in stile gotico. La pietra è bella e colorata. […] A fianco alla chiesa, sulla facciata, 25 finestre. La facciata del convento e della chiesa dei Benedettini era magnificamente ricca di ornamenti. Allo stesso modo, anche gli altari sono di solito decorati con colonne tortili addobbate con fiori, piccoli puttini, uccelli e altri soggetti, raggruppati sui capitelli e tra le ghirlande lungo il fusto delle colonne. Durante il viaggio non avevo ancora visto nulla che fosse così bello come l’altorilievo, realizzato egregiamente. Di certo, è l’unico pezzo al mondo ad avere un’architettura talmente ricca. La piazza claustrale dei Benedettini è la più bella che abbia mai visto. I chiostri hanno tetto piatto e balaustrate sostenute da splendide doppie colonne con bei capitelli, una fontana e alcune statue al centro. Al piano di sopra i corridoi sono lunghi, alti e in proporzione larghi. Ogni cella dei frati aveva un bel balcone in pietra. Davanti, pilastri corinzi e di ordine misto.

Prospetto della chiesa del Gesù.

Prospetto della chiesa del Gesù.

Un altro ordine religioso presente a Lecce fin dal 1574 era la compagnia di Gesù. I gesuiti giunsero in città al seguito di Bernardino Realino da Carpi, e nel 1575 promossero i lavori per l’edificazione di un proprio convento e dell’adiacente chiesa, utilizzando i disegni del gesuita comasco Giovanni de Rosis. La costruzione di questa struttura, già aperta al culto nel 1577, verrà terminata verso la fine del secolo, ma causò la demolizione della chiesetta di San Niccolò dei Greci, eretta nel IX secolo durante la dominazione bizantina, dove si praticava il rito ortodosso. Quest’ultima venne ricostruita ex novo con un gusto neoclassico nel 1765, per volere dei mercanti epiroti albanesi già presenti in città a partire dalla fine del XV secolo; infatti in quegli anni si registrò una forte emigrazione albanese nell’Italia meridionale, poiché la loro terra natia era stata conquistata dai turchi ottomani. È ancora George Berkeley ad offrire una descrizione della Chiesa del Gesù e del suo convento:

Qui abbiamo visto il più bel collegio di Gesuiti. […] Il convento dei Gesuiti è davvero grande, può ospitare 14 padri. […] La facciata della chiesa e del convento dei Gesuiti è signorile ed elegante l’aspetto imponente e maestoso. Due file di colonne, la prima di ordine misto, la seconda o superiore, di ordine ionico con piccole finestrelle al di sopra della seconda fila di finestre. Finestre anteriori, 26; in più, altre due che si inseriscono tra ogni coppia di colonne. Alberi di arancio nei cortili dei chiostri, lunghi corridoi che conducono alle camere, ognuna delle quali aveva una porta in pietra decorata come quella di un palazzo. […] La facciata della chiesa dei Gesuiti è decorata, ma non eccessivamente. È davvero nobile, come altre chiese che ricordo di aver visto, davvero bella, come quella del nosocomio di Santo Spirito, con decorazioni nettamente scandite, non affastellate, colonne corinzie unite da festoni.

Prospetto della chiesa del Carmine.

Prospetto della chiesa del Carmine.

Lo stesso filosofo e vescovo irlandese assistette ad alcuni lavori della Chiesa del Carmine. La prima pietra di questo edificio religioso fu posta il 15 luglio 1711, e la sua realizzazione era diretta dall’architetto Giuseppe Cino, il quale vi lavorò fino alla sua morte, avvenuta nel 1722. La chiesa dell’Ordine della Beata Vergine del Monte Carmelo fu terminata nel 1737, sotto la direzione dell’architetto Mauro Manieri. I carmelitani avevano avuto diverse sedi a Lecce. Giunti nel 1481, occuparono una chiesa posta fuori dalle mura nei pressi di Porta San Biagio; in seguito al terremoto del 5 dicembre 1456 furono costretti ad abbandonarla e a trasferirsi nella chiesa di San Nicola, che dedicarono alla Madonna del Carmelo. Il complesso carmelitano, ancora in fase di costruzione, è brevemente descritto da Berkeley:

Molto bella la chiesa dei carmelitani, specialmente gli interni. Al momento stanno costruendo ancora con i soldi che riescono a guadagnare, ossia 2.000 ducati annui, dai quali devono vivere 26 persone. Sulla parte anteriore una piccola parte a punta di diamante, che talvolta è purtroppo usato da queste parti.

Appaiono conflittuali invece le memorie dell’abate Saint-Non, riguardanti l’edificio religioso dell’Ordine dei frati predicatori di San Domenico. Infatti a Lecce sorgevano nel Settecento due conventi domenicani, la cui disputa ideologica venne riappacificata nel 1433 grazie a Maria d’Enghien. La costruzione del convento di San Domenico fuori le Mura fu approvata con la bolla papale di Eugenio IV, datata al 15 giugno 1442, mentre nella seconda metà del XIV secolo venne costruito il convento domenicano di San Giovanni d’Aymo, nei pressi di Porta Rudiae. Quest’ultimo – attuale sede dell’Accademia di Belle Arti – fu ricostruito nel Settecento ad opera dell’architetto Emanuele Manieri. L’incisione del Saint-Non, tuttavia ricorda un’altra struttura religiosa presente a Lecce, ovvero il monastero degli Olivetani – affidato dal 1985 all’Università del Salento. Questo edificio risale al XII secolo, ma tuttavia fu soggetto a diverse ristrutturazioni, di cui l’ultima risale al 1733. Il suo chiostro è simile a quello raffigurato dall’incisione dell’abate Saint-Non, poiché presenta dei corridoi a colonne binate e un pozzo a baldacchino. Ecco, invece, la descrizione della struttura religiosa fatta dall’abate francese:

Una delle costruzioni moderne che noi abbiamo visitato a Lecce e la sola che merita qualche attenzione da parte di noi disegnatori, ed era il cortile interno del convento dei domenicani. È tuttavia, come si vede dal disegno che è inciso, una vasta piazza lunga, circondata da una galleria sostenuta da colonne accoppiate; l’effetto è abbastanza buono, anche se le colonne non hanno una bella proporzione: ma questa corte ha un carattere saggio e nobile, che fa riposare gli occhi dal faticoso lavoro della facciate esteriore dell’edificio, e di tutti gli altri di questa città moderna.

Il chiostro dei domenicani, incisione di Saint-Non, 1778.

Il chiostro dei domenicani, incisione di Saint-Non, 1778.

La cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta, il cui impianto risale al 1144, è situata invece all’interno di un raro esempio di piazza chiusa. Infatti questo spazio urbano era circoscritto all’interno di una cinta muraria, la quale venne in seguito abbattuta. Verso la fine del Settecento l’architetto Emanuele Manieri rivisitò l’arredo urbano di piazza del Duomo: fece costruire dei palazzi gemelli e l’ingresso, dove un tempo sorgevano i cancelli, venne arricchito dai propilei. La stessa cattedrale subì delle ristrutturazioni, arricchita con una falsa facciata, accogliendo i fedeli in una navata laterale della chiesa. Questa soluzione scenografica venne adottata per evitare che il visitatore, una volta entrato nella piazza, non si trovasse di fronte ad un muro senza decorazioni. A circoscrivere il perimetro del piazzale vi sono altre strutture: tra le più importanti si menzionano l’episcopio, il seminario e l’imponente torre campanaria, che venne progettata da Giuseppe Zimbalo, detto zingarello. L’impressione di Berkeley è così riassunta:

La cattedrale è splendida, con larghe indorature ma le pitture non sono eccezionali; architettura moderna, splendide torri campanarie. La parte inferiore dell’ospedale non è ancora intonacata; doppie colonne. Ordine dorico nella parte inferiore, ordine ionico sopra. Il seminario vicino alla cattedrale ha una splendida facciata, con decorazioni ben distinte ed un bel cortile interno. Vescovato, bello l’ingresso con doppia scalinata e balaustrate, portico aperto con archi.

D’intermezzo tra piazza del Duomo e piazza dei Mercanti c’è la madornale confusione di Henry Swinburne circa il Santo patrono di Lecce:

La cattedrale fu eretta da Tancredi, dopo che lui salì sul trono; è dedicata a San Cataldo e San Nicola; uno dei due santi è piazzato sopra un frammento di colonna antica dentro la piazza grande. Questo frammento è stato portato da Brindisi, dove il suo compagno è ancora lì.

La piazza dei Mercanti era il fulcro del commercio cittadino. Nel suo disegno urbano erano presenti, oltre al già menzionato Sedile e all’adiacente chiesetta di San Marco, l’imponente colonna di Sant’Oronzo e le statue equestri di Carlo V e di Filippo II il prudente. Alta circa 29 metri, questo pilastro venne eretto in segno di gratitudine al Santo patrono della città, il quale, secondo la credenza popolare, aveva preservato Lecce dalla peste del 1656 diffusasi nel Regno di Napoli. Il monumento venne realizzato prendendo i resti marmorei dello stelo di una delle due colonne romane poste a Brindisi, quella crollata in seguito al terremoto del 1456. Il progetto partì nel 1666, ma l’assenza di fondi fece slittare i lavori al 1681. Questi vennero portati a termine cinque anni dopo, sotto la supervisione dello zingarello. Sul capitello venne posta inizialmente una statua lignea ricoperta in rame, raffigurante Sant’Oronzo, ma durante i festeggiamenti patronali dell’agosto del 1737, un razzo colpì e bruciò la statua. La nuova effigie venne riprodotta nuovamente a Venezia, questa volta interamente in bronzo, e dal 1739 è posta sul piedistallo dell’antica colonna in benedizione della città. Una prospettiva della piazza è offerta da Berkeley, il quale è l’unico dei viaggiatori in questione ad aver visto la statua lignea del Santo patrono:

Nella piazza centrale, un’antica colonna corinzia su cui si erge la statua bronzea di San Oronzio, protexi et protegam; statua equestre in marmo di Carlo V. Sulla cima della fontana, decorata con molte statue mediocri, un’altra statua equestre di un re di Spagna. […] Sulla colonna di Brindisi si erge una 46 statua in bronzo di San Oronzo. Su un lato del basamento abbiamo letto quest’iscrizione:

S. Orontio Protocristiano, Protopropheti, protomartyri Liciensi ob averruncatam a patriae solo totaque Salentina regione pestilentiam in anno MDCLVI Italiam provincialium desolantium columnam hanc clerus ordo, populus que Lyciensis ut in columna ad suorum munimen … excubant Orontius … Urbis.

Passati circa trent’anni, a testimoniare al von Riedesel quell’infausto incidente è il capitello della colonna, il quale portava ancora i postumi di quell’incendio doloso:

Sulla piazza di Lecce si vede una colonna di marmo bianco portata da Brindisi, dove se ne vede un’altra simile, ma meglio conservata, e della quale vi darò la descrizione a suo luogo. Il capitello di quella di Lecce è moderno e la colonna è stata talmente danneggiata, dal fuoco che le sue varie parti sono ricongiunte con delle grappe di ferro.

Incisione di Piazza Sant'Oronzo del XIX secolo.

Incisione di Piazza Sant’Oronzo del XIX secolo.

L’abate Saint-Non pare che sia poco interessato alla modernità, tant’è che disprezza non solo il riciclaggio dell’antica colonna romana, ma addirittura critica la stessa impostazione della piazza:

Era eretta dentro la grande piazza il fusto della seconda colonna riversata di Brindisi, alla quale è aggiunto un malvagio piedistallo e un ancor più malvagio capitello, sulla quale è posato un grosso Santo che sembra minacciare di schiacciare tutti coloro che lo guardano. Non c’è niente di peggio di questo monumento, se non una fontana senza acqua molto stimata nel paese, e una piccola figura equestre di Filippo II, in pietra, dello stesso genere e che ha la stessa reputazione. Questa piazza che è quella del mercato, e la più considerevole della città, è costruita senza alcuna regolazione, né alcun disegno.

Di calcare, bianco e giallo paglierino

La bellezza di Lecce, incorniciata nella sofisticata decorazione barocca, è un riconoscimento particolarmente legato al materiale di cui è ricco il sottosuolo della regione salentina: la pietra leccese, o in vernacolo leccisu. La sua caratteristica è ben spiegata dal barone di Eisenbach:

Questa pietra, uscendo dalla cava, è molle e facilmente vi fanno su delle decorazioni, come se fosse della cera, ma col tempo, ed al contatto dell’aria, acquista la durezza di travertino.

Nonostante abbia queste particolarità, la natura della pietra è molto sensibile all’umidità, allo smog e agli agenti atmosferici. I maestri scultori dell’epoca barocca usavano trattare la roccia con del latte, allo scopo di renderla più resistente alle intemperie. Infatti il lattosio, penetrando nelle porosità del leccisu, creava uno strato impermeabile capace di preservarne la materia. La pietra leccese è una calcarenite il cui colore è bianco, ma invecchiando acquisisce un altra sfumatura, tendente al giallo paglierino. Berkeley offre la seguente analisi:

La pietra, che è bella e colorata, indurisce se esposta all’aria; la pietra bianca morbida è invece usata per decorare gli interni delle chiese, ed è ben lavorata. […] Il gusto è ricco ed esuberante, vista la facilità di lavorazione della pietra locale. Sembra quasi che gli artisti del posto abbiano conservato parte del genio elegante e dello spirito dei greci, che per qualche tempo hanno abitato queste terre.

La semplicità di lavorazione del leccisu garantisce perciò allo scalpellino di plasmarla a suo piacimento, trasformando il suo sogno in materia, e difatti i maestri scultori del XVI secolo ne fecero un ottimo uso, come dimostra quel patrimonio artistico che la città ha ereditato. Anche Henry Swinburne riconosce le  indubbie qualità di questa pietra, benché non apprezzava particolarmente come questa veniva impiegata:

È talmente dolce e così di classe, che si può plasmare come la cera, e quella è sempre pronta a ricevere qualsiasi forma che lo scalpellino vuole dargli. Tuttavia, se resta esposta all’aria, la pietra acquisisce un fortissima consistenza. Non c’è alcun materiale che è talmente desiderabile per abbellire le costruzioni, né più suscettibile di regolarità e di proprietà nella giunzione. Ma il prospetto dei principali edifici è carico di decorazioni di un gusto detestabile, che ero quasi arrabbiato che la conoscenza dell’architettura greca non era mai stata ritrovata in questo paese.

I leccesi, tra arte ed ignoranza

Piazza di Sant'Oronzo com'è oggi.

Piazza di Sant’Oronzo com’è oggi.

L’impressione che i viaggiatori stranieri hanno avuto sugli abitanti della città risultano essere piuttosto divergenti. Berkeley offre un ottimo spunto di riflessione in riguardo al popolazione leccese presente nel 1717: in prima analisi, se la peste del 1656 risparmiò la città, un’altro contagio infettivo causò la decimazione dei suoi abitanti nel 1679. Gli individui che popolano questa città sono ritratti perennemente in festa, caratterizzati da uno spirito mondano che è riscontrabile anche nei ceti più bassi della società. Una contraddizione di Berkeley è il numero di abitanti di Lecce: infatti, egli sostiene che essi sono 9.000, ma anche 16.000. Si potrebbe supporre tuttavia che la cifra più cospicua comprendesse anche l’hinterland leccese, che all’epoca era densamente popolato. Inoltre nel 1767 von Riedesel si diceva convinto che la città poteva contare non più di 15.000 abitanti, mentre Swinburne sostiene che la popolazione di Lecce si aggira intorno alle 30.000 anime. Senza prolungarsi in un ulteriori ipotesi poco attendibili, circa il numero effettivo degli abitanti leccesi nel settecento, quest’ultimi lasciarono un’impressione abbastanza positiva a George Berkeley:

Tanti nobili leccesi vivono in campagna, vi sono carrozze, eccetera. La popolazione è stata decimata da un’epidemia nel 1679. […] I dintorni sono densamente abitati. […] 16.000 abitanti, 8 miglia dal mare, l’unica attività commerciale riguarda l’oliva. 14 conventi, 16 monasteri, strade aperte, belle, ma tortuose; diversi luoghi aperti. […] A Lecce si celebra la funzione del Corpus Domini (anziché il giovedì santo). Stendardi, effigi, bandiere, ostie, preti lussuosamente vestiti, ecclesiastici di ogni ordine, confraternite, milizia, fucili, petardi, razzi, abiti nuovi. […] Domenicani portano la croce greca, i carmelitani invece una figura strana, irregolare, altri invece ne scelgono una ovale, eccetera. […] Gli abitanti sono ora 9.000. […] La gente è civile e cortese e, almeno le persone con cui finora ho avuto a che fare, le trovo oneste e intelligenti.

Tuttavia nel Regno di Napoli era un luogo comune considerare gli abitanti di Lecce come uomini pigri ed ignoranti. A considerare simili congetture fu Johann Hermann von Riedesel, il quale risparmia da questa critica solamente la bellezza e la determinazione delle donne leccesi:

Lecce è, dopo Napoli, la più bella e la più grande città del reame, e quantunque non abbia che quindicimila abitanti, potrebbe comodamente contenerne ottantamila. […] Non mi rimane a dirvi niente su quanto Lecce contiene di notevole, né in quanto alle cose, né in quanto agli uomini; perocché vi confesso che, in tutta la Sicilia ed in tutto il regno di Napoli, io non ho trovato città, e neppure villaggio, in cui io abbia trovato tanta poca gente istruita e dotata solamente di spirito naturale, il che può derivare dal gran numero di nobili oziosi, orgogliosi e poveri, che l’abitano. Le donne sono belle, senza che la loro bellezza mi abbia colpito, e le ho trovate molto più fornite di spirito, a raffronto degli uomini; hanno per lo meno del talento per la musica e delle belle voci, ballano con grazia. Questa stupidità dei cittadini di Lecce non può essere attribuita al clima, poiché a Bari, in cui il clima è lo stesso, e che non dista se non centoventi miglia, si trova maggior numero di gente di spirito e di genio. Bisogna confessare tuttavia che a Lecce, la quale dista otto miglia dal mare, l’aria è più greve e più spessa che non a Bari. La casa Palmieri possiede delle medaglie e dei quadri di poco valore; il loro possessore deve avere scritto un libro sulla tattica, che io non conosco. Era il solo privato della città al servizio militare del suo sovrano.

Il britannico Swinburne invece prende le distanze da simili dicerie, e analizza con interesse le musiche e i canti popolari salentini:

Il numero degli abitanti di Lecce può essere al massimo di 30.000, non proporzionato con l’estensione della città, che ha la reputazione di essere, rispetto al resto del regno di Napoli, quella che Tebe era per la Grecia. Si pretende che un cittadino di Lecce è riconoscibile tra i suoi compatrioti, per la pesantezza delle sue maniere e per la durezza del suo intelletto. Non posso commentare su questo punto, perché durante il breve soggiorno che ho fatto, ho avuto poche opportunità di conversare con i cittadini; ma non riesco a sospettare di essere nella sede della stupidità, una città che ha una accademia delle belle lettere, e dove alcune delle muse trovano almeno delle sincere ammirazioni e felice successo. Anche se l’accademia, fatta dalla protezione reale e fatta da direttori rispettabili, non si esercita quasi mai come a dei sonetti, e altri assurdi capricci dell’immaginazione, la musica è coltivata con entusiasmo. Tanti gentiluomini sono buoni musicisti e anche gelosi delle loro brillanti competenze nelle feste solenni. La musica di Lecce ha un carattere assai lamentoso, in particolare all’inizio; le canzoni in strofe più stimate seguono questo tono, tra cui il seguente esempi, che è una del loro stile. Ho spesso sentito le improvvisazioni cantate dei loro brani di poesie.

Lecce non era dunque un panorama eterogeneo, dove l’ignoranza popolana e la pigrizia nobiliare, si fondevano in quadro complessivo che offriva diverse conoscenze culturali ben radicate sul territorio. In città infatti erano presenti numerose biblioteche che custodivano importanti manufatti antichi, mentre la cultura leccese conobbe negli anni precedenti, non solo la passione per la musica, l’architettura barocca e la bravura degli scalpellini. Anche le arti figurative ebbero importanti esponenti locali, come Antonio Verrio di Lecce e Giovanni Andrea Coppola, originario di Gallipoli. Però la pigrizia dei leccesi è già confermata dal Berkeley nella sua unica nota negativa, la quale riporta fenomeni di assenteismo e scarsa organizzazione nelle strutture ad interesse culturale: 

La biblioteca conteneva alcuni scritti greci, ad esempio manoscritti di Licofrone, il De urbibus di Stefano, alcuni di Omero, ma erano disseminati e non c’era un indice che potessi consultare. […] Non abbiamo potuto visitare la biblioteca perché la persona che aveva le chiavi era assente, stesso pretesto che ci siamo sentiti dire anche in altri posti. In compenso, una bella veduta della città e della campagna.

Il leccese Giuseppe Palmieri.

Il leccese Giuseppe Palmieri.

Più fortunato è invece il Saint-Non. Tuttavia egli rimane abbastanza deluso per non essere riuscito a vedere la collezione del Palmieri, citata in precedenza da von Riedesel. In ogni caso l’abate francese ha comunque la possibilità di consultare l’archivio dei domenicani:

Nessuno può dirci il tempo dove Lecce fu costruita; alla grande quantità di vasi etruschi che qui sono stati trovati e che si trovano ancora, non c’è alcun dubbio che il suo territorio era stato occupato da qualche grande città, dove le arti stesse erano conosciute. Noi vediano nella ricerca accademica del canonico Mazocchi sull’origine di Lecce, che vi era, com’egli asserisce, dentro questa parte della Messapia una colonia molto antica fondata dai greci e il suo nome Λυπιαυοι di cui è riportato sulle stesse medaglie. Di più e dentro lo stesso luogo si era stabilita una colonia romana suo il nome di Lupia; in seguito alla corruzione e la successione dei tempi, la stessa città si è chiamata Lecce. Ci hanno mostrato all’archivio un piccolo bronzo rappresentante un Ercole che rompe una colonna, che anche se non è il più bello stile, non è senza merito. Noi siamo molto pentiti di non riuscire a vedere l’ufficio di un marchese di Palmiria che si trova a Napoli in questo momento, e che è pieno, si dice, di oggetti d’antiquariato trovati nello stesso paese.

Il Sedile con ancora l'orologio, in una foto di inizio Novecento. Fonte: www.viaggioadriatico.it

Il Sedile con ancora l’orologio, in una foto di inizio Novecento. Fonte: www.viaggioadriatico.it

Alla bellezza artistica offerta da scultori e architetti locali, si sommano anche due illustri pittori salentini, già citati in precedenza: Antonio Verrio, nato il 1639 e morto nel 1707, e Giovanni Andrea Coppola, vissuto tra il 1597 ed il 1659. Questo è il parere artistico del barone di Eisenbach sui due artisti:

Nella cattedrale, vi sono due quadri del Coppola, di Gallipoli, che sono inferiori a quelli che vi ho detto di aver veduti nella sua città natale. La facciata della chiesa dei Gesuiti e quella dei Teatini sono le migliori e le meno cariche di ornati. Nella chiesa di S. Matteo si mostra un bel quadro, di un pittore di Lecce, cognominato Verrio, che viveva prima di Coppola; la sua maniera è buona, ma non così graziosa come quella di quest’ultimo; per rovescio, l’ho trovato più corretto nel disegno. Anch’egli ha fatto fortuna in Francia e nei palazzi dell’alta nobiltà leccese si veggono parecchie buone opere di lui.

Il successo internazionale di Antonio Verrio è risaputo anche da Henry Swinburne, il quale afferma:

Il più grande numero di quadri delle chiese e delle decorazioni delle case sono disegnate da Verrio, nato a Lecce, e che per lungo tempo lavorò in Inghilterra, dove fece scale e i loro soffitti sono molto stimati per l’illusione perfetta della prospettiva, e la varietà delle figure, sebbene lui manca di correzioni, di scelte e d’altri vantaggiosi requisiti per le regole dell’arte. Lui morì nel 1707.

Produzione economica

Statua bronzea di Sant'Oronzo, posta sulla colonna romana.

Statua bronzea di Sant’Oronzo, posta sulla colonna romana.

Agli inizi del Settecento – come sostenuto da Berkeley – l’economia locale era incentrata quasi esclusivamente sull’olivicoltura. In un panorama agricolo di sussistenza, la necessità di importare il grano dalla Calabria, lascia intendere una pessima gestione delle politiche economiche. Questo pensiero viene in seguito confermato dal barone di Eisenbach, il quale evidenzia una cattiva amministrazione locale, parallela alle onerose imposte che gravano sui reali settori produttivi, causando perciò un fermo al grande potenziale economico che offre l’area salentina. La qualità della materia prima si riassume nell’egregio lavoro degli artigiani locali: vini, oli, merletti in lino o in cotone, tabacchi, ma anche altri prodotti di prima mano. Questa è la breve analisi economica offerta dal viaggiatore irlandese:

Giardini di aranci, fiori e buona frutta. Il poco grano è importato dalla Calabria passando per Taranto ed altri posti lontani. […] 8 miglia dal mare, l’unica attività commerciale riguarda l’oliva.

Molto più completa è invece l’osservazione fatta da von Riedesel, il quale afferma:

I ricchi prodotti del paese, la sua grande fertilità, uniti all’attività ed industria dei cittadini, renderebbero questa provincia la più ricca del reame, senza gli ostacoli che vi apporta una cattiva amministrazione delle finanze. A Lecce si fabbrica una quantità considerevole di merletti comuni, col filo ed il lino, che il paese produce. Vi si fabbrica ancora un tabacco, la cui foglia si coltiva al capo Santa Maria di Leuca in un terreno molto sabbioso. La qualità di questo tabacco non la cede per niente a quello di Siviglia, ma bisogna lasciarlo invecchiare otto anni prima di usarlo. Si prepara nel modo più semplice e più comune. Per averlo molto buono, non si piglia se non la cima della pianta, e non si fa altro se non macinare le foglie al mulino, e si fa passare la polvere attraverso una mussola, e poi si conserva in una bottiglia di vetro nella quale fermenta ed acquista il suo punto di perfezione. Certuni vi mischiano un poco d’olio di pistacchio, il che accelera l’operazione, ma gli dà un gusto strano. Una libbra di questo tabacco, della migliore qualità, costa venti carlini. Ai possessori dei fondi non è permesso se non di coltivare un numero determinato di piante, sulle quali egli paga un diritto al Re, valutato un tanto, per ciascuna pianta, tutto quello che si coltiva in più è ritenuto contrabbando e sequestrato dall’appaltatore quando viene a fare la sua visita. Il tabacco, il lino, il cotone, la canapa e l’olio, di cui si fa abbondante raccolta, procurerebbero a questo paese un commercio esterno dei più vantaggiosi, se delle imposte distruttrici non gli tarpassero tutta la sua attività.

Questo squarcio settecentesco su Lecce offre un panorama assai complesso, tra gusti architettonici e arti figurative, sinonimo di un alto ingegno artistico che nasce in un contesto sociale pigro e mondano. Una qualità superlativa dei prodotti che offre questa terra, alle frustrazioni che quest’ultima è soggetta, causate da un apparato burocratico privo d’ogni interesse e opprimente sul piano fiscale. Insomma, un quadro assai confuso e articolato, fatto da innumerevoli pregi ed altrettanti difetti. Nella prossima tappa si andrà alla riscoperta di Taranto nel Settecento, attraverso le memorie degli stessi viaggiatori.


Note:

1 Dati popolazione residente a Lecce. Fonte Comuni Italiani.


BIBLIOGRAFIA

Author: Alessio Sacquegna

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