Il Grand Tour settecentesco: Taranto e il mito letterario

Quei pochi viaggiatori stranieri che intraprendevano il Grand Tour, spingendosi oltre Napoli nel desolato Mezzogiorno d’Italia, avevano un particolare interesse a visitare quei luoghi talmente discussi nei preziosi manoscritti ereditati dall’antichità: a godere di simili attenzioni tra le principali città di Terra d’Otranto era la millenaria città di Taranto, Taras per i greci, Tarentum per i romani.
Questo centro portuale si prestava agli avventurieri settecenteschi in un splendido contesto paesaggistico: giungendo dalle lievi alture che racchiudono quasi interamente l’ampia vallata dove sorge la città, lo sguardo si perdeva in enormi distese di campi dalla natura rigogliosa, posti quasi interamente ad ampie coltivazioni, mentre l’enorme pianura era custode gelosa e millenaria di quello specchio d’acqua che i tarantini chiamano Mar Piccolo.
Si tratta in realtà di un bacino naturale, costituito in due seni idealmente divisi da Punta Penna e da Punta Pizzone (attualmente collegate dal ponte Aldo Moro1), mentre a ponente altri due promontori lo circoscrivono: a sud Capo San Vito e verso nord Punta Rondinella. Quest’ultime due lingue di terra abbracciano la città vecchia, di origini medievali, la quale sorge sopra un’isola, dando protezione agli unici accessi che collegano il Mar Piccolo al Mar Grande. Un’altra distesa d’acqua che si estende ad ovest fino all’arcipelago delle Cheradi, composta a sua volta due isolotti detti San Pietro e San Paolo. Per questa sua peculiarità morfologica, Taranto è detta la città dei due mari; viene anche soprannominata città spartana, in quanto secondo la leggenda furono i lacedemoni a favorire la fondazione di questo rinomato centro portuale intorno all’VIII secolo a.C.

Mar Piccolo e Mar Grande. Fonte: Google Earth.

Mar Piccolo e Mar Grande. Fonte: Google Earth.

La città jonica sin dall’antichità, oltre ad essere considerata un’importante porto naturale, agevolata da questa predisposizione geografica, poteva vantare di un commercio assai florido in molti settori economici nel periodo preindustriale. Indubbiamente il suo vigore produttivo è andato a scemare in epoca medievale ed in età moderna, ma il suo potenziale, seppur rimase inespresso, non risultò mai sminuito nel corso dei secoli. Sarà il novecento a cambiare drasticamente l’immagine di Taranto: infatti il 9 luglio 1960 fu posta la prima pietra per la costruzione dello stabilimento Ilva, facendo in breve tempo della città jonica uno dei maggiori poli siderurgici d’Europa, sebbene a pagarne salate conseguenze, da quanto si evince dalle funeree cronache d’attualità, sono gli stessi tarantini e quel che resta dell’anticamente ricco patrimonio ambientale.
Discostando questo tema corrente altamente delicato ed importante, che merita di essere meglio approfondito in opportuna sede, l’impressione che offre la settecentesca Taranto – sebbene veniva affievolita dai notevoli trascorsi di ricchezza e di potenza – non era indubbiamente paragonabile in termini architettonici alla barocca e sfarzosa Lecce; d’altro canto la città jonica era il più importante centro economico in Terra d’Otranto, poiché vantava di efficienti infrastrutture portuali, soprattutto militari, a differenza di Brindisi, la cui rada era portatrice di pestilenziali conseguenze.

Veduta aerea dell'odierna Taranto.

Veduta aerea dell’odierna Taranto.

Risulta doveroso anticipare che nelle società preindustriali la produzione era rivolta in prevalenza ad un’economia di sussistenza, ma nonostante ciò Taranto eccedeva nel settore dell’agricoltura e della pesca, affermandosi come uno dei maggiori centri economici del Regno di Napoli. Affiancata ai tradizionali settori produttivi di sostentamento, notevole slancio avevano la manifatture tessili, in quanto ricevevano la materia prima dalla pastorizia e dalla mitilicoltura locale. Questa situazione giovava alle infrastrutture portuali di Taranto, dalle quali passava un’impressionante varietà di beni, garantendo sicché dinamicità e virtuosismo al commercio tarantino.
Oggi la città jonica è capoluogo dell’omonima provincia e vanta 198’728 abitanti, classificandosi nella graduatoria demografica come la terza città più popolata dell’Italia meridionale peninsulare, e la sesta in tutto il Mezzogiorno2.

TARANTO NEL SETTECENTO

ATTRAVERSO LE MEMORIE DEI VIAGGIATORI

Breve descrizione del paesaggio tarantino

Sant'Egidio Maria da Taranto. Statua in cartapesta dello scultore Salvatore Sacquegna (1920).

Sant’Egidio Maria da Taranto. Statua in cartapesta dello scultore Salvatore Sacquegna (1920).

Era il 29 maggio 1717 quando il teologo irlandese George Berkeley, all’epoca appena trentaduenne, intraprese il suo cammino per Taranto, partendo da Oria verso le 13:00, e giungendo solo alle 20:30. Questo particolare mette in evidenza il tempo impiegato negli spostamenti da un paese all’altro: un tragitto che vanta circa quaranta chilometri in quel tempo era percorribile approssimativamente in sette ore e mezzo. Al suo arrivo in città, Berkeley viene ospitato nella città jonica dai Frati Minori Scalzi, detti anche Alcantarini, o ancora nel volgo popolare Zoccolanti Scalzi. Questa famiglia francescana era ben radicata in Italia e in particolar modo nel Mezzogiorno, tant’è che in onore di moltissimi suoi religiosi vennero eretti innumerevoli altari; fra costoro è d’obbligo ricordare per dover di cronaca Sant’Egidio da Taranto, al secolo Francesco Antonio Domenico Pasquale Pontillo, nato nella città jonica il 16 novembre 1729 e venuto a mancare a Napoli il 7 febbraio 1812. Costui fu beatificato per volere di Papa Leone XIII il 5 febbraio 1888, ed il 29 giugno 1919 venne proclamato solennemente Compatrono della città dall’allora arcivescovo di Taranto, Orazio Mazzella; spetterà a Papa Giovanni Paolo II a completare il percorso di canonizzazione del frate, santificandolo il 2 giugno 1996.
Chiudendo quest’interessante aneddoto e ritornando al Berkeley, il teologo irlandese non ha conservato alcuna impressione particolare su Taranto, e perciò le sue osservazioni si limitano ad una semplice descrizione analitica del paesaggio circostante:

Il golfo di Taranto all’orizzonte. Grandi vigneti a destra e a sinistra. Pastura inaridita e disseccata. A sinistra San Giorgio, una cittadella discreta. Un campo di grano. Siamo passati nelle vicinanze di un piccolo villaggio sulla sinistra. […]Ore 19.00: giungiamo ad uno dei rami del golfo, sulla nostra destra. Grande distesa di grano. A distanza, ulivi a sinistra su una leggera altura. La catena di rilievi continuava dall’altra parte del mare. Piante di ceci, giunchi, ulivi, grano, mucche e buoi. Una salita, arbusti, una distesa di grano. Grano, ulivi, viti. Tanti grossi ulivi tra il grano. Vigne ed alberi di fico. Ulivi, vigne, giardini, conventi, case. Ulivi, pastura e grano sulla sinistra. Conventi e giardini a destra e a sinistra. Siamo arrivati agli Zoccolanti Scalzi alle 20.30. Alle 20.03 avevamo visto una distesa di grano e Taranto.

Nel 1767 il barone di Eisenbach, Johann Hermann von Riedesel, giunge nel porto di Taranto a bordo di un’imbarcazione. Egli descrive la città jonica con un’ottica particolare rispetto agli altri viaggiatori settecenteschi:

Arrivai, finalmente, il 20 maggio 1767 a Taranto. […] La situazione a Taranto è speciale, tanto che, a chi la vede dal mare, sembra che sia tutta attorniata dall’acqua. […] Sembra che la parte, la più importante della città vecchia, sia stata edificata attorno a questo piccolo mare, le cui sponde sono tutte coverte di frammenti di marmi.

A seguire le stesse orme di Berkeley è l’abate francese Jean Claude Richard de Saint-Non, il quale giunge a Taranto partendo da Casalnuovo (l’odierna Manduria), costeggiando i centri di Oria e di San Giorgio Jonico. Costui rimane assai meravigliato dalla bellezza sprigionata dal golfo tarantino:

Non abbiamo trovato null’altro più d’interessante a Casalnuovo, se non le rovine dell’antica città di Manduria, di cui noi abbiamo parlato, cosicché rimontiamo a cavallo per continuare la nostra rotta, e dopo aver lasciato il borgo di Oria sulla nostra destra e passato il villaggio di San Giorgio, che è a dieci miglia, noi non tardiamo a scoprire Taranto dentro una magnifica situazione, circondato da una costa piacevole, ridente e fertile, tra due mari, tutto così bello e tutto così ricco in produzione dall’una all’altra parte. La posizione risponde perfettamente all’idea che noi ci siamo fatti di Taranto, di questa molle Taranto che venne appoggiata da Annibale in Italia, e di cui la potenza bilanciata di Roma portò le arti, le scienze, la voluttà, tutti i piaceri dei sensi al più alto grado, a tal punto che la conquista di Taranto infine corromperà la stessa Roma.

Taranto vecchia.

Taranto vecchia.

A completamento di questa descrizione, l’abate francese riesce a donare al lettore una pregevole immagine della Taranto settecentesca, come un pittore, suo contemporaneo, mentre è intento a dare colore alla tela per produrre un quadro vedutista:

La città moderna di Taranto è costruita su una lingua, dove una punta di terra avanza sin dentro al mare, nel mezzo di un golfo, qui separato dal resto del Grande Mare: uno specchio d’acqua che è chiamato in paese Mar Piccolo. La città è attaccata al continente mediante due ponti, sotto le cui arcate si vedono molto sensibilmente le maree salire, e ogni sei ore ridiscendono nello stesso arco di tempo. Quest’isola è ormai quasi tutta la città attuale, ed in passato non era altro che un castello ritenuto inespugnabile, essendo circondato dal mare da tutte le sue coste. Invece l’antica Taranto occupava, oltre ad esso, anche la terra ferma fino in fondo al golfo, ed in più Capo San Vito, dove l’estremità di questa lingua di terra entra nei due mari.

Il 3 maggio 1777 lo scrittore inglese Henry Swinburne parte da Francavilla Fontana con destinazione Taranto. Come si vedrà in seguito le sue memorie riguardanti la città jonica sono tra le più complete e ben argomentate, dedicando infatti all’antica città di origini spartane ben sette sezione della sua opera (dalla sezione XXIX alla sezione XXXV). Ecco riportata l’impressione dell’inglese subìta dal fascino paesaggistico in cui è racchiuso il golfo tarantino:

Dopo aver cavalcato attraverso un bel tratto di frutteti, giunsi in vista del Mar Piccolo, oltre il quale si trova la città di Taranto. Le sponde della baia si inclinano dolcemente verso il mare così da creare un effetto non molto impressionante: questo prospetto appare insipido come i laghi artificiali e gli eleganti flutti dei giardini inglesi totalmente differenti dalle ardite bellezze del paesaggio italiano. La campagna che lo delimita è selvaggia ma gradevole: un terreno piano e un tessuto erboso muscoso, coperto in molti punti di ciuffi di arbusti aromatici e ammassi di carrube che sembrano essere native.

In prosieguo dell’incipit, dalla cui argomentazione si avverte un’attenzione rivolta in particolar modo a decifrare la bellezza paesaggistica e naturale che attornia Taranto settecentesca, è un’esigenza affrontare nella prossima sezione la millenaria storia di questa città, attraverso un preludio tematico volto a descrivere quei mitici fiumi e quelle fonti sorgive sottomarine, la cui origine carsica non solo ha affascinato i viaggiatori settecenteschi, ma addirittura sono entrati a far parte del mito letterario sin dall’epoca antica, intingendo sicché la storia nella leggenda.

Il mito letterario del paesaggio tarantino

Il Galeso, il fiume dei poeti.

Il Galeso, il fiume dei poeti.

Scostando la grigia cronaca del presente è ancora possibile rintracciare il mito poetico nel seno di ponente, dove sfocia il millenario Galeso: un fiume di origine carsica di circa 900 mt., tra i più piccoli al mondo, la cui foce è un piccolo laghetto situato tra Cavello e Statte. Nonostante la sua dimensione, esso è protagonista sin dall’antichità nella vita di Taranto e dei tarantini; il suo nome non è solamente legato a leggende popolari, ma è stato richiamato da celebri poeti del passato, i quali ne hanno consacrato il mito.
Durante il medioevo, il barone Riccardo di Taranto, di ritorno dalla prima crociata, fece costruire nei pressi del fiume l’Abbazia di Santa Maria del Galeso, la quale venne consacrata dall’allora arcivescovo Ghirardo al termine dei lavori, avvenuti nel 1169. Più recentemente, quando la città jonica ha subito la sua conversione in polo industriale del sud Italia, nel 1915 vennero installati i Cantieri Navali, oggi dismessi. Tuttavia ciò non è bastato a cancellare la millenaria storia di questo fiume e della sua città.
L’origine del nome è tuttora incerta ed è oggetto di dibattito, ma le tesi più accreditate lo vogliono di origine autoctona, poiché esso era già chiamato così ancor prima dell’arrivo dei lacedemoni e della fondazione della città. Lo storico, archeologo e abate abruzzese Domenico Romanelli (1756-1819) scriveva a tal proposito3:

L’etimologia di questo piccolo fiume fu derivato dal canon. Alessio Simmaco Mazzocchi (1684-1771) da radici orientali, che dinotavano trasmi graziarle (ossia trasmigrazione), da riferirsi o a Noachidi, ovvero a Cananei quivi rifuggiti. Gloria singolare per un piccolo fiume, e quasi ignoto, che abbia fissata così l’attenzione di popoli così celebri e rimoti. Il signor Cataldantonio Atenisio Carducci (1733-1775) ricorse ancora alla lingua ebraica, senza prima provare, che gli ebrei conimati nella Palestina avessero mai toccata l’Italia, e trovò felicemente la parola galas, che da la nozione di tosare. Che ne sia questa la vera etimologia, perché le lane delle pecore si tosavano nella sua riva, onde cantò Orazio. Da Virgilio si dice a questo fiume l’aggiunto di negro. Il quale fu aggiunto per derivare, o dalla profondità della sua origine, cioè da una palude, come pensò Adriano Turnebo (1512-1565), ovvero dalle folte ombre delle siepi e degli alberi che spalleggiavano il suo corso. Questa seconda opinione è appoggiata a Properzio, da cui si chiamò il Galeso colì aggiunto di ombroso per la sua spessezza di pini, che la circondavano.

Inoltre, per altri studiosi e ricercatori, l’etimologia del termine potrebbe derivare dalla radice gal-, che allude a peculiari caratteristiche del fiume (dalle fresche acque), o dall’aggettivo albus, in accezione di bianco, altro riferimento al candeggio delle lane.
Il primo a citare il Galeso è lo storico greco Polibio, il quale narra che in occasione della seconda guerra punica tra Roma e Cartagine, a sostegno della potente Taras, giunse nell’anno 207 a.C. il generale Annibale4:

“[Annibale avendo] lasciato sufficiente numero di soldati e i necessari cavalli a guardia della città e a difesa del mare, pose gli accampamenti in un luogo discosto dalla città quaranta stdi, presso il fiume che alcuni chiamano Galeso, ma dalla maggior parte Eurota, che bagna la Laconia e scorre presso Sparta: ed ha molta somiglianza la campagna e la città dei lacedemoni, con quella dei tarantini, perciocché questi sono, a detta di tutti, coloni ed anche congiunti di sangue dei primi.

Ad inaugurare l’epoca romana è il poeta venosino Quinto Orazio Flacco, il quale dedica splendide parole al suo amico Settimio, confidandogli il timore che se non fosse riuscito a tornare in patria, avrebbe desiderato che la morte lo sopraffasse sulle rive del Galeso5:

Septimi, Gadis aditure mecum et Cantabrum indoctum iuga ferre nostra et barbars Syrtis, ubi Maura semper aestuat unda: Tibur Argeo positum colono sit meae sedes utinam senectae, sit modus lasso maris et viarum militiaeque. Unde si Parcae prohibent iniquae, dulce pellitis ovibus Galaesi flumen et regnata Laconi rura Phalantho. Ille terrarum mihi praeter omnes angulus ridet, ubi non Hymetto mella decedunt viridique certat baca Venafro; ver ubi longum tepidasque praebet luppiter brumas et amicus Aulon fertilii Baccho minimum Falernis invidet uvis. Ille te mecum locus et beatae postulant arces; ibi tu calentem debita sparges lacrima favillam vatis amici.

L’ode di Orazio è stata ripresa anche da alcuni viaggiatori settecenteschi del gran tour che avevano deciso di spingersi ben oltre Napoli: il prussiano Johann H. von Riedesel barone di Eisenbach e l’abate francese Jean Claude Richard de Saint-Non. Il barone tedesco, che si trovava a Taranto nel 1771, ha riportato nelle sue memorie Viaggio attraverso la Sicilia e la Magna Grecia:

Il Galeso, celebrato dagli antichi poeti:

 

Dulce pellitis ovibus Galesi flumen (Horat . Lib. II. Od. VI)

 

Oggi non è se non un ruscello che va a sboccare nel mare piccolo, una specie di golfo, formato dal mare, dietro la Taranto attuale, e diviso in due parti da una lingua di terra. Quella razza di pecore bianche, una volta così celebri, che si lavavano nelle onde del Galeso, e che questo fiume proteggeva in una maniera speciale, è estinta, e non si veggono in questa contrada se non dei montoni neri, perché si è osservato che i bianchi, quanto mangiavano una certa pianta, molto comune nei dintorni di Taranto, morivano, mentre non produceva nessun danno ai montoni neri.

L’abate francese, autore del Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, riporta un quadro generoso del suggestivo paesaggio galesano, rincalzando la stessa denuncia di von Riedesel in riguardo all’estinzione delle pecore dalla candida lana:

Seguendo i bordi del Mare Piccolo, siamo arrivati al punto in cui questo spazio di Mare si restringe tra due piccoli promontori. In questo luogo vi è un ponte, chiamato Ponto di Penne, con il quale si accede ad un sobborgo costruito sul lato opposto che si estende fino al Galeso, fiume così famoso di cui tanto si è cantato, però qui c’è solo un piccolo ruscello le cui acque scorrono lentamente attraverso le canne; è vero che esso non viene più servito per il lavaggio della lana tanto ricercata delle pecore bianche di cui parlava Orazio.

 

DULCE PELLITIS OVIBUS GALAESI FLUMEN, ODE VI, L. II.

Altro illustre poeta romano a citare il Galeso è Publio Virgilio Marone, al quale si deve l’aggettivo affibiato al fiume di niger, ossia ombroso o scuro; un riferimento legato forse alla presenza di alghe che alteravano il suo colore o alla fitta vegetazione che lo cingeva6:

Namque sub Oebaliae memim me turribus arcis, qui niger umectat flaventia culta Galaesus, Corycium vidisse senem, cui pauca relicti iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis nec pecori opportuna seges nec comoda Baccho. Hic rarum tamen in duminis holus albaque circum lilia verbenasque premes vescumque papaver regnum aequabat opes animis seraque revertens nocte dominum dapibus mensas onerabat inemptis. Primum vere rosam atque autumno carpere poma et, cum tristishiemps etiamnum frigore saxa rumperet et glacie cursus frenaret aquarum, ille comam mollis iam tondebat hyacinti aestatem increpitans seram Zephirosque morantis.

La foce del fiume Cervaro.

La foce del fiume Cervaro.

Il passo di Virgilio sarà ripreso da Henry Swinburne nelle sue memorie. Lo scrittore britannico pone un’altra interessante digressione sull’assetto paesaggistico della Taranto settecentesca: infatti egli cita un altro fiumiciattolo, anch’esso di origine carsica, che sfocia nel seno di levante del Mar Piccolo, dove le sue acque riposano nel letto posto in prossimità della palude La Vela; si tratta del Cervaro, dove anticamente, a ridosso delle sue sponde, doveva sorgere un tempio consacrato al culto di Diana. Non molto distante dalla sua sorgente venne eretto nel 1597 dai Frati Cappuccini il complesso del convento Battendieri. Costoro provenivano da un’altra struttura religiosa situata nei pressi del Galeso, edificata tra il 1533 ed il 1536, e caduta in disuso circa un ventennio dopo. Il convento sul Cervaro ospitava una gualchiera, ossia un’officina dove i Cappuccini lavoravano alla follatura della lana. La testimonianza di Swinburne risulta perciò essere assai preziosa e particolare rispetto quelle offerte dagli altri viaggiatori:

Attraverso questa landa scorre il Cervaro, un piccolo ruscello di acque biancastre che fluisce nella baia a nord-est. Alcuni autori credono sia il Galeso, per via della coincidenza della distanza di cinque miglia dalla città di Taranto che Polibio aveva determinato; un’altra prova di ciò potrebbe essere l’aggettivo bianco che Marziale aveva utilizzato per riferirsi al Galeso, dato che le acque del fiume in questione si tingono delle particelle gessose e marnose del terreno circostante. Questa caratteristica saponacea può aver reso l‟acqua particolarmente efficace per purificare e sbiancare le pelli lavate nel fiume. Quando Virgilio usò il termine Niger per questo fiume, forse alludeva alla fitta foresta di pini che ombreggiava le sue sponde. Sesto Properzio, parlando così al bardo mantovano7:

Tu canis umbrosi subter pineta Galesi
Thyrsin et attritis Daphnin arundinibus

sembra insinuare che Virgilio compose le sue Ecloghe a Taranto o in qualche grande casa vicina, forse la stessa dove lui dice di aver preso lezioni di agricoltura da Coricio, il pirata illirico portato da Pompeo in queste valli:

Namque sub Oebaliae memini me turribus altis
Qua niger humectat flaventia culta Galeso
Corycium vidisse senem”

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Ancora Swinburne continua nella sua dissertazione, dove riporta nelle sue memorie una discussione avuta con un anziano pastore del posto in riguardo a quella splendida ed antica razza ovinide dal candido manto:

Mentre pensavo ai suddetti fatti e mi sforzavo di sentirmi soddisfatto per il fatto di stare per davvero sulle sponde di un fiume famoso, un anziano pastore si avvicinò col suo gregge e liberamente iniziò a conversare: fui lieto di venire a conoscenza di alcuni particolari che riguardavano le pecore tarantine e la diffusa opinione che non ve n’erano più di bianche in quei pascoli perché soggette all’avvelenamento causato dalle foglie del fumolo (una specie di hypericum crispum, detto anche pianta di Saint John o polyadelphia poliandria di Linnaeus); mentre le pecore marroni possono gironzolarci attorno al sicuro. È per questa ragione, si dice, che non si vedono più pecore bianche nelle greggi, nessun vello, se non nero o di colore marrone scuro. L’anziano signore sorrise alle mie domande e puntando alle molte pecore bianche nel suo gregge rispose che non era per via del colore ma della specie che l’animale poteva subire i danni di quelle erbe nocive: le pecore gentili, cioè la razza di pecore delicate, sono molto più inclini a morire per questo e altri incidenti rispetto alle pecore moscie, o carfagne, una razza più selvaggia e scadente, tanto che la prima razza è quasi completamente distrutta. Per spiegare questo in maniera soddisfacente, è necessario che io allarghi l’argomento e che ricapitoli quello che sappiamo sulle greggi degli antichi tarantini, sui tentativi fatti recentemente per rianimare il valore della lana pugliese e sulle cause che hanno annullato queste intenzioni e fatto abortire il piano. Columella ci dice che i tarantini ibridarono la loro razza delicata con montoni stranieri selvaggi di un bel colore bruno e che la lana dei loro agnelli aveva il colore forte e lucente del fuoco e l’ondosa setosità della madre. Per aumentare lucentezza e morbidezza usavano avvolgere la pecora in una specie di cappotto di pelle che toglievano di tanto in tanto quando la bestia aveva troppo caldo; poi lavavano e mettevano a mollo la lana in vino e olio fino a che era satura degli abbondanti impacchi. Prima della tosatura, la pecora era lavata nel Galeso e in tutte le stagioni messa al chiuso in ovili puliti, lontana dalla sporcizia. Non erano mai portate fuori per mangiare se il sole non aveva asciugato la rugiada poiché lo zampillare delle gocce dall’erba poteva infiammare i loro occhi. Questo processo e il fatto che gli antichi non parlassero della bianchezza della lana tarantina erano prova di quanto Sannazaro e altri moderni avessero confuso tempi e idee nell’elogiare tale lana per la tua tinta lattea. Il colore scuro non impediva affatto l’assorbimento del colore porpora scuro, che i tarantini amavano moltissimo. Dopo la caduta di Roma, una lunga successione di guerre e devastazioni privò questo paese di tutti i vantaggi acquisiti e ne modificò così orrendamente persino il clima, tanto da distruggere anche i frutti che la natura gli donava. Quando manifatturieri e manifatture furono distrutti le merci primarie persero il loro valore e non valse più la pena, per il pastore che pur era depositario della migliore arte in questo mestiere, affannarsi per preservare la purezza di sangue o aver delicatezza nel ricoprire le sue pecore; quegli accorgimenti non ebbero più ammiratori o compratori e quindi presto la razza degenerò. Federico di Svevia fece qualche passo avanti riprendendo questo ramo del commercio, ma la sfortuna della sua famiglia rese vani i suoi progetti. L’introduzione di bachi da seta dall’est da parte di re Ruggero si rivelò un fatale freno alla richiesta di lana raffinata; e il peso delle tasse imposto su queste merci dai principi angioini, dopo che persero la Sicilia, completò la distruzione della razza più fine. Per via della loro costituzione delicata, queste richiedevano sistemazioni costose e attenzione costante per portare profitto; quindi, i pastori pugliesi che per indigenza non potevano procurare questo tipo di comodità, abbandonarono questa razza delicata e si interessarono ad una varietà più rozza, di solito nera o marrone, robusta e capace di nutrirsi impunemente con piante e specie d’erba che avrebbero reso cieche o deboli, se non addirittura avvelenato, le pecore gentili. Questa razza era così svilita nel quindicesimo secolo e i fattori ridotti in tale miseria che Giovanna II scelse piuttosto di ridurre le tasse poste sulla lana da suo fratello più che di tentare una miglioria, per la quale necessitava di professionalità e industriosità. Alfonso I, che aveva visioni più ampie e godeva di una maggiore pace e di più agio del suo predecessore, risolse col procurare per i suoi domini napoletani una razza di pecore perfezionata, inviata in regalo ad uno dei suoi antenati dal re dell’Inghilterra, che aveva già portato sostanziali vantaggi nel regno d’Aragona.
Per ottenere questo egli fece trasportare un appropriato numero di pecore e montoni, la prole di quelli inglesi, in Puglia. Ferdinando I, volenteroso nell’appoggiare il sistema di suo padre, incoraggiò la manifattura della lana invitando lavoratori dai luoghi stranieri dove questo commercio fioriva; ma le tasse imposte da questi due sovrani produssero in definitiva effetti molto pericolosi. Essi tassarono pesantemente le classi più povere e i fattori e la vendita della lana non bastava a risarcire questi ultimi di eventuali perdite dovute a brutte annate o incidenti. L’oppressione di viceré bisognosi e ignoranti, obbligati ad anticipare o a ipotecare ogni entrata per sopperire alle richieste continue del ministero spagnolo, aumentò così tanto il danno che la razza bianca fu completamente abbandonata e ad oggi il numero di pecore gentili è trascurabile nel distretto di Taranto. Poca accuratezza è oggi usata nella scelta dei montoni o degli incroci più appropriati, per cui la lana non è così raffinata come potrebbe essere, anche se è ancora di buona qualità. Una migliore gestione o impiego di materie prime in casa potrebbe creare una fonte inesauribile di benessere per lo stato. La carne delle pecore gentili è più floscia, fibrosa, insipida e quindi più economica rispetto a quella della moscia; ed è prevista una multa per i macellai che fanno passare la carne dell’una per quella dell’altra.

Un citro nel mare di Taranto.

Un citro nel mare di Taranto.

Tuttavia Swinburne aveva maturato la personale convinzione che l’antico Galeso in realtà potesse corrispondere all’odierno Cervaro; ciò si evince in particolar modo quand’egli giunge in prossimità dell’area che i tarantini chiamano Le Citrezze, proprio dove riposa nel suo letto il noto fiume decantato da Orazio e Virgilio.
Si tratta di una località situata nell’area settentrionale del Mar Piccolo – tra la città di Taranto e Punta Penna -, così chiamata a causa di un fenomeno geologico che si manifesta nell’area lagunare: questa complessa attività carsica genera sorgenti d’acqua dolce non potabili che, fuoriscite dalla crosta sottomarina e mescolandosi con l’acqua salata del Mar Piccolo, favoriscono la creazione di un vortice d’acqua comunemente detto Citro:

Subito dopo aver lasciato il pastore, passai accanto a delle macerie che gli antiquari chiamano vestigia del muro dei Iapigi. Era lungo quaranta miglia e fu eretto da quelle antiche genti da sponda a sponda per dividere i loro territori da quelli dei Messapi. Raggiunsi poi una valle deliziosa, chiamata Le Citrezze, dove c’è un torrente che nasce da un bacino a circa trecento iarde dal mare. Le acque fanno lussureggiare i prati e piantagioni di vecchi ulivi li proteggono dai brucianti raggi del sole e da tutti i venti, tranne che dal dolce favonio che gioca sulla superficie del Mar Piccolo. Smontai da cavallo per godere del fascino di questo luogo dolce e isolato; e mentre i miei occhi vagavano per il bel paesaggio, lasciai la mia immaginazione vagare tra una serie di riflessioni melanconiche sul destino degli imperi e su quello di Taranto in particolare. […] [Questo torrente] i Tarantini lo chiamano il Galeso; d’Anville e Zannoni chiamano così un fiume che sfocia nel Mar Grande. La sorgente di Citrezze è profonda e quindi corrisponde all’epiteto “nero”, dato da Virgilio. La scarsa lunghezza del suo corso corrisponde con l’antica credenza che lo vedeva il più corto tra i fiumi; ma ancora non riesco a capire come un rivoletto tanto insignificante possa essere ritenuto un fiume ed essere chiamato Eurota dai Partheni per la sua somiglianza col fiume di Lacedemone o come numerose greggi possano pascolare sulle sue rive ed essere lavate nelle sue acque.

Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, Atlante Geografico del Regno di Napoli, Tavola 21, 1808. Fonte: Istituto Geografico Militare.

Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, Atlante Geografico del Regno di Napoli, Tavola 21, 1808. – Fonte: Istituto Geografico Militare.

Accantonando momentaneamente le perplessità dello scrittore britannico, oltre alla piccola parentesi aperta dallo stesso sulle sorgenti sottomarine presenti nel Mar Piccolo, è doveroso soffermarsi sulle opinioni di due illustri cartografi del settecento: il francese Jean Baptiste Bourguignon d’Anville e l’italiano Giovanni Antonio Rizzi Zannoni. Infatti costoro ritenevano che l’antico Galeso in realtà sfociasse nel Mar Grande, facendolo perciò coincidere con un altro corso d’acqua dolce che nasce a circa dieci chilometri dalla città jonica, e attraversa l’agro di Massafra: si tratta in realtà del Tara, anch’esso di natura carsica8. La leggenda vuole che intorno al secondo millennio prima dell’avvento del Cristo, sulle sponde di questo fiume, sia giunto scortato dalla sua flotta il mitologico Taras. Costui sarebbe stato per gli antichi greci il fondatore spirituale di Taranto, la quale venne in seguito sottratta ai Iapigi dai parteni di Falanto9.

"Taras", opera dell'artista contemporaneo di origini Tarantine Roberto Ferri.

“Taras”, opera dell’artista contemporaneo di origini tarantine Roberto Ferri.

Ritornando sul tema dei citri, essi sono generati da reti idrografiche sotterranee che sfociano nel mare, le cui sorgenti sono disseminate nello Ionio e nell’Adriatico. Tuttavia si registra una cospicua presenza di citri nelle zone settentrionali del Mar Piccolo, dove nei seni di levante e ponente sono state localizzate rispettivamente 20 e 14 sorgenti sottomarine. Come già accennato in precedenza, questo fenomeno è causato dall’espulsione di acqua dolce proveniente dall’imboccatura sorgiva che, mescolandosi alle acque salmastre, generano il cosiddetto citro, rendendo perciò variabile la salinizzazione del mare stesso. L’abate francese, mentre era intento a ricercare le antiche vestigia di un ponte collegante Punta Penna con Punta Pizzone, individua ben due sorgenti marine vicino alla foce del Galeso:

C’è vicino alla foce del Galeso due sorgenti che noi avevamo detto essere due fontane di acqua dolce, ma in realtà erano salate come il resto del mare. Andammo allora al Ponte di Penne per cercare, ma invano, qualche vestigia di un ponte che citavano alcuni antichi autori, che, secondo ogni apparenza, non è mai esistito in questo Mare Piccolo, essendo in questo posto di una profondità impraticabile per qualsiasi tipo di costruzione.

Questo fenomeno è riportato anche nelle memorie del barone di Eisenbach, il quale però sofferma la propria attenzione sull’etimologia del termine. In effetti la parola citro potrebbe derivare dal vocabolo greco KYΘPOΣ (chytros), ovvero “pentola“; a supporto di questa tesi è la fantasia popolare, che associando questo fenomeno fisico all’ebollizione dell’acqua messa a scaldarsi sul fuoco, riesce a giustificare la complessa attività marina, dove l’acqua dolce uscita dalla sorgente sottomarina risale verso l’alto ribollendo per la spinta della pressione. Suggestiva ma anche poco esplorata è l’ipotesi che riconduce i citri tarantini alle sorgenti d’acqua calda delle Termopili, dette ΧΎΤΡΟΙ, ossia “chitri“. In riferimento a ciò, questo è il pensiero espresso da Johann Hermann von Riedesel:

Siccome io feci il giro del mare piccolo nel mio battello, vidi, a poca distanza dalla imboccatura del Galeso, quella sorgente tanto nota che scaturisce dal fondo del mare con tanta forza e così abbondantemente da potersi attingere, in mezzo all’acqua salata, un’acqua dolce, che non è affatto mischiata con essa; gli abitanti chiamano questa sorgente Le Citrezze, nome che sembra derivare da KYΘPOΣ, come parecchie altre parole che usano nel loro linguaggio.

Si congettura che queste sorgenti sottomarine abbiano offerto un notevole supporto alla fiorente mitilicoltura, già ampiamente nota nel Medioevo e forse anche prima. A sostegno di quest’ipotesi c’è un passo di Plinio il Vecchio che potrebbe alludere ad una pratica ittica sconosciuta già nota agli antichi greci e romani10:

Et ostrea […] gaudent dulcibus aquis et ubi plurimi influunt amnes.“/span>

Nel Mar Grande invece è ben visibile il citro più grande di tutto il litorale tarantino, che viene chiamato “Citro di San Cataldo” (oppure “Anello” o “Occhio di San Cataldo“). In un commento di Cataldantonio Atenisio Carducci, posto all’interno dell’opera postuma di Tommaso Niccolò d’Aquino11, egli afferma che il santo irlandese – vissuto nel VII secolo a.C. -, mentre era in procinto di giungere nella città jonica, venne colto in mezzo al mare da una tempesta e che per placarla gettò nel mare il proprio anello pastorale generando questo citro. Dal manoscritto di Niccolò d’Aquino, la cui versione originale è ormai andata perduta, si ricavano innumerevoli citazioni riguardanti il Galeso12:

Oebaliae canimus sylvas, bimarisque Tarenti Moenia, quae coeli variis clementia didat Naturae illecebris: ubi pinguia culta Galaesus Alluit, et parvo fluit haud inglorius alveo.

Sempre lo stesso d’Aquino narra di un’antica leggenda che supporta la tesi che la mitilicoltura era già praticata in epoca antica, e che questo tipo di produzione ittica traesse determinati benefici dalla presenza dei citri13:

Hic sed mira canam: nigras quas aequora conchas Oebaliae servant, riguo data munera coelo, Edocuit quemdam indigenum, qui culta, Galesus, Alluit, et parvo numen qui praesidet alveo. Tempore jam ex illo, cum urbis cunabula prima Accolerent, et cymba prius per caerula remis Curreret, aequorei populans uda agmina Nerei: Vir fuit Oebaliae, quo non praestantior alter Retibus, aut hamis, vel arundine, fallere pisces. Antigenes huic nomen erat, cui serior aetas Canitiem dederat, tergoque labante recurvo Desierat luctari undis, et quaerere praedam, Dum fera saevit hyems: at vero aestate serena Littora verrebat circum, aut prope flumina captans Squamigerum pecus, et laetus sub paupere tecto, Exiguus voti, soles fallebat inertes. Spelunca alta fuit, musco variata marino: Exitus hinc fluvii patuit: nunc obruta magna Annorum serie jacet, aevi immane tropaeum. Antra Therapnaeus coluit secreta Galaesus, Caerulei rex ipse loci, generator aquarum. Huc forte aestate in media, cum Delius ardet, Antigenes venit, qua frigore dulcis opaco Aestivas hyemes afflat zephyrosque salubres Rupis odoratae statio, vitreique fluenti Rauca fremunt lymphae: nec dissita murmura longe Labuntur cursu, subitus sed nexilis error Implicat obliquum parvo callem labyrintho. Viribus effoetis, gelido consederat antro Ut primum senior, gremio laetatus amoeno, Undisonans inter visum se attolere frondes Flumineum numen, cui tempora glauca coronat Populus, et duplici serto praecinxit arundo. Ille autem obstupuit dubia formidine pressus, Ignarusque novi vultus, nec flumina novit: Ac veluti nemore in magno sub nocte vaganti Terribiles visu formae se phasmata produnt, Constitit incertus, spectrumque exterritus hausit: Incoeptum nec iter sequitur, gressusve retorquet. Tunc vero numen pavitatem, ac multa timentem Talibus aggreditur dictis: absiste moveri, Antigenes piscator, aquae sum praeses, et alvei Fluctibus allabens felicia culta Galaesus, Ipse ego piscatum leges, et signa docebo Plurima, quae secreta latent, atque arcana recondam: Inspirant superi magnam mihi mentem, animumque: Accipe quae peragenda: tuumque in saecula nomen Attollent Lycidas, atque aequoris incola Milcon. Sic memorat, cessitque timor: quin extitit ultro Coelestes audire sonos, et pendet ab ore Antigenes: contra flumen dehin farier infit. Albenti quidquid Latonae subjacet orbi, Aethereis alitur signis: hinc decidit humor Irriguus, nactus causam, et primordia rerum: Inde pecus Nerei, depictae et murice conchae. Luminibus vix nota cadunt ea semina coelo: Donec longa dies diuturni temporis aevo Concretum perfecit opus, solidamque figuram Gemmea lympha rigans, rorisque argentues imber Et scopulos, et saxa, brevi concham efficit orbe. Nunc ignota jacet, parvo nec semine crescit: Incrementa etenim nova quae solertia praebet, Adverte, Antigenes, facilisque meam accipe mentem. Humida septenis oritur cum pleïas astris, Principio, oblongos imo praefigite palos Doridis exiguae: coelo tunc decidit alto Ros tenuis, riguae tunc prodiga gaza pruinae Foedere candenti pinosque, et saxa maritat. Delia cum pleno collucet pronuba cornu, Aut lacrimis aurora suis, et coelite nimbo, Roscidus in tenues guttas aut solvitur aër, Parvula contractis adolescunt semina lymphis, Et sensim insinuant formas: nec tempore longo Conchula majori protenditur edita succo, Quam natura parens nigra testudine vestit. Baltheus at medius cum fulserit Oriónis, Sole oriente novo, Cochleas divellite palis, Concretosque globos imo demittite ponto, Praesertim Tethys qua rauca reciprocat aestum Aequoris Jonii refluentis ad ostia fluctus: Augebunt sed enim maris impriga caerula cursu Vel decurva sinu parvi prope littora Nerei Proijcies fundo: sedes accomoda conchae est. Hic dulces latices, mirum! salsum inter hiatum Exiliunt, Cochleas juvat, aeternumque juvabit Irriguus nascentis aquae fons aequore in ipso: Hinc locus aspicitur, longe nec dissitus extat.

Ed è ancora Niccolò Tommaso d’Aquino a rievocare il Galeso, incitando il suo amico Cataldantonio Atenisio Carducci a terminare il Deliciae Tarantinae qualora il tempo glielo avrebbe impedito14:

Tu vero ante alios fortunatissimus heros, Carducci, sacra quem Melites insignia cingunt, Dulcis onor patriae, mihi foedere vinctus amico, Sanguine cognato vinctus, tu perfice munus. Te vocat Oebaliae lucus, te nota Galaesi Thessala, te nemorum invitant decora alta comantum, Et zephiri molles, atque aptior aestibus umbra.

Il niger Galaesus, oltre a trovare importante fama presso gli antichi, quali alcuni abbiamo già avuto modo di citarli – si ricordano tutti: Polibio, Quinto Orazio Flacco, Publio Virgilio Marone, Sesto Aurelio Properzio, Marco Valerio Marziale e Claudio Claudiano –, trova confermata fortuna anche in epoca moderna. Tra questi autori contemporanei spicca Jacopo Sannazaro (1457 – 1530), autore de L’Arcadia, opera scritta tra il 1480 e il 1504; nelle Elegie scriveva in riferimento al Galeso15:

Mox salentinus ibis metator in agros qua secat Oebalia culta Galesus aqua.

Dello stesso periodo è il poeta, umanista e drammaturgo toscano Agnolo Ambrogini, detto Poliziano (1454 – 1494), il quale scrive all’interno del componimento Manto, una delle sue quattro Sylvae16:

Iamque Phalantei resonant pineta Galaesi, Tityre, te vacuo meditantem murmur in antro, iamque tuam dociles recinunt Amaryllida silvae.

Ludovico Ariosto, in un'opera di Tiziano del 1510, conservata nel National Gallery di Londra.

Ludovico Ariosto, in un’opera di Tiziano del 1510, conservata nel National Gallery di Londra.

Il Galeso viene anche citato dal poeta e commediografo emiliano Ludovico Ariosto (1474-1533), nella sua opera maggiore, L’Orlando Furioso. È quindi ripreso il canto trentunesimo capolavoro cinquecentesco scritto tra il 1516 e il 153217:

Ed or, perch’abbia il Magno Carlo aiuto,
lasciò con poca guardia il suo castello.
Tra gli African questo drappel venuto,
questo drappel del cui valor favello,
ne fece quel che del gregge lanuto
sul falanteo Galeso il lupo fello,
o quel soglia, del barbato, appresso
il barbaro Cinifio, il leon spesso.

Il poeta italiano Giovanni Pascoli, autore del componimento 'Senex Corycius'.

Il poeta italiano Giovanni Pascoli, autore del componimento ‘Senex Corycius’.

Trecento anni dopo, a seguire le orme dell’emiliano Ariosto è un romagnolo, ritenuto tra i maggiori esponenti del decadentismo italiano. A celebrare il Galeso è dunque Giovanni Pascoli (1855-1912) nel componimento poetico in latino Senex Corycius (1902), successivamente inserito nella raccolta Liber de Poetis18:

Unam vidit apem cum secum diceret aeger
Vergilius: “Sic ista tepet tibi bruma, Tarentum?
Sic mihi terrarum super omnes, angule, rides?
Sic, flumen, glacie consistis, dulce Galesi?

Infine si ricorda anche un allievo pascoliano, Adolfo Gandiglio (1876-1931), che con Prope Galaesum (cioé Presso il Galeso) nel 1927 si classifica in seconda posizione nel prestigioso premio letterario di lingua latina, il Certatem poeticum Hoeufftianum, il quale si svolgeva annualmente ad Amsterdam tra il 1844 ed il 197819:

“Turres adverso procul ardens sole Tarenti interlucentis supra pineta Galaesi.”

Interludio preliminare

In questa prima sezione è stata rievocata la rigogliosa natura che attorniava Taranto, e che ancora oggi, seppur minacciata dai gravi problemi che affliggono la città jonica, è ricca e verdeggiante. Nella seconda parte si andrà ad analizzare la millenaria storia di Taranto, con l’ausilio delle memorie dei viaggiatori settecenteschi Berkeley, von Riedesel, Saint-Non e Swinburne.
Queste approfondite ricerche sono il risultato di una presa di coscienza da parte del sottoscritto, in quanto Taranto, dai trascorsi gloriosi e lussureggianti, e oggi stuprata e denigrata dalla bieca cecità del modernismo, che favorendo l’amnesia folkloristica di un luogo così prestigioso, quanto oggetto di vanto dei nostri avi, ha sottratto da oltre un cinquantennio per frivoli interessi aziendali, non solo ai tarantini, ma al mondo intero, un luogo che rievoca storia anche nella stessa matriarcale natura. I lettori non me ne vogliano di questo, e la Taranto odierna, avvelenata anche in quei pochi jugeri di terra ancora non sottrattigli, come il vecchio Coricio sotto le ebaliane torri, riesce ad aver ancora un animo talmente casto da far invidia a qualunque sovrano.


NOTE

1 Inaugurato il 30 luglio 1977, fu realizzato in calcestruzzo precompresso su progetto dell’ingegnere Giorgio Belloni, e costò all’epoca quasi 26 miliardi di lire per la sola realizzazione, più altri 15 miliardi di lire per l’esecuzione dei lavori di viabilità secondaria. Il ponte, dedicato nel 1978 allo statista magliese Aldo Moro, prematuramente scomparso, raggiunge l’altezza massima di 45 metri sopra il livello del mare, e vantando una lunghezza pari a 1’909 metri è tra i più lunghi d’Europa. Fonte: Wikipedia.
2 Dati popolazione Taranto. Fonte: Comuni italiani.
3 Domenico Romanelli, Antica topografia istorica del Regno di Napoli, Stamperia Reale, Napoli, 1815.
4 Polibio, Istorìai, Libro VIII, 35.
5 Orazio, Carmina, Libro II, 6, “A Settimio” – traduzione: “Settimio, con me verresti a Càdice, tra i càntabri ribelli al nostro giogo, nelle barbare Sirti dove l’onda mauritana sempre ribolle; ma come vorrei che Tivoli, fondata da coloni greci, fosse la sede della mia vecchiaia, fosse il punto d’arrivo per me, stanco di viaggi sulla terra, sul mare e di imprese militari. E se da qui il destino si accanisse a negarmelo, ripiegherò nelle terre su cui regnò Falanto di Laconia, dove le rive del Galeso son gradite alle greggi fasciate dalle pelli. Quell’angolo di mondo più di ogni altro mi sorride, là dove i profumi d’Imetto si ritrovano nel miele, il verde di Venafro negli ulivi, là dove Giove offre inverni miti alternati a lunghe primavere, dove il poggio di Aulon, amico a Bacco rigoglioso, fermenta vini inebrianti come l’uva che produce Falerno. Quel luogo, cinto da ridenti colline, ci vuole là insieme, l’uno e l’altro; anche se qui un giorno dovrai piangere sulle ceneri ardenti del tuo poeta amico.
6 Virgilio, Georgiche, Libro IV, 125-138, “De Coricio” – traduzione: “Ricordo infatti che sotto le torri della rocca Ebalia, le cui bionde coltivazioni vengono irrigate dall’oscuro Galeso, ho conosciuto un vecchio di Corico a cui spettavano pochi iugeri di terreno abbandonato; terreno sfavorevole all’aratro dei buoi, né favorevole al pascolo dei greggi, né adatto a Bacco. Eppure costui, che usava piantare qua e là, fra rovi e tutt’intorno legumi, gigli bianchi, verbène e tenui papaveri, in cuor suo uguagliava l’opulenza dei re; e a tarda sera, tornando a casa, riempiva la mensa con cibo non comperato. Era il primo a cogliere la rosa in primavera e la frutta in autunno; e quando il triste inverno tagliava ancora le pietre con le gelate, e frenava col ghiaccio lo scorrere delle acque, egli tosava già la chioma del delicato giacinto, incurante dell’estate tardiva e degli zefiri indugianti.
7 Properzio, Elegie, Libro II, 34, 68 – traduzione: “[O Virgilio] tu canti, per le pinete dell’ombroso Galeso, Tirsi e Dafne con le loro vecchie canne.
8 Il Tara, che prende il nome della mitologica figura di Taras, è stato reso protagonista di alcuni storici avvenimenti: nel I secolo a.C. sarebbe avvenuta la riconciliazione tra Ottaviano e Marco Antonio, per opera di Ottavia, sorella del primo e moglie del secondo, la quale visse a Taranto dopo essere stata ripudiata dal marito a favore di Cleopatra. Nell’anno 1594 si ebbe una battaglia tra Cristiani e Turchi, e lì la popolazione di Massafra riuscì a rigettare in mare gli invasori islamici. In prossimità di esso sorge il Monastero di Santa Maria della Giustizia, la cui edificazione risalirebbe al 1119; inizialmente fu data in concessione ai Benedettini, per poi essere affidata agli Olivetani nel 1482. In occasione della battaglia del 1594 venne saccheggiata e data alle fiamme da parte degli invasori. Le acque del Tara vengono considerate sin dall’antichità benefiche per tonificare il corpo, nonché un rimedio efficacissimo contro le malattie dei nervi, ed è ancora usanza diffusa farsi i bagni nel fiume. Il primo settembre, le persone devote alla Madonna del fiume Tara usano recitare il Santo Rosario nelle sue acque alle prime luci dell’alba.
9 Taras, figlio di Poseidone e della ninfa Satyria, sposò Satureia, figlia del re Minosse. Il mito racconta che egli, una volta sbarcato sulle coste ioniche dell’Italia meridionale, avrebbe improvvisamente visto un delfino, segno di buon auspicio e di incoraggiamento per fondare una città da dedicare a sua madre o a sua moglie. La località di Saturo è tutt’ora esistente, e sorge nella marina di Leporano, dove oggi sorge l’omonimo parco archeologico, che ricopre un intervallo storico tra il XVIII secolo a.C. e il XVI secolo a.C. La città spartana venne chiamata così in suo onore, solo quando i parteni, guidati da Falanto, riuscirono a sottrarla ai Iapigi nell’VIII secolo a.C. Forse l’etimologia stessa di Taranto discende dall’unione dei nomi di queste due figure della mitologia greca, Taras e Falanto.
10 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, Libro XXXII, cap. XXI – traduzione: “le ostriche […] prosperano nelle acque dolci e dove confluiscono molte correnti.
11 Tommaso Niccolò d’Aquino, Delle delizie tarantine (a cura di Cataldantonio Atenisio Carducci), Napoli, Stamperia Raimondiana, 1771.
12 Tommaso Niccolò d’Aquino, Delle delizie tarantine, Libro I, 1-4 – traduzione: “Noi celebriamo i boschi di Ebalia e la città di Taranto posta tra due mari, cui il dolce clima arricchisce con le tante bellezze di natura: ove il fiume Galeso bagna gli ubertosi campi, e non senza onore scorre placido nel suo piccolo letto
13 Tommaso Niccolò d’Aquino, Delle delizie tarantine, Libro II, 262-348 – traduzione: “Ma qui dirò cose meravigliose: quali nere conche serbi il mare tarantino, doni concessogli dal cielo. Il Galeso che bagna i campi e qual divinità presiede a quel piccolo fiume, ne istruì un nostro concittadino. Sin da quel tempo che la città cominciò a popolarsi e che le prime barche scorrevano pel nostro mare a far preda dei pesci, vivea in Ebalia un uomo, il quale non aveva eguali nel pescare con reti o con ami o colla canna. Si chiamava Antigene; la tarda età gli avea già imbiancato i capelli, ed essendo già curvo e cadente avea cessato di lottar colle onde e di cercar prede nel rigido inverno. Ma giunta l’estate scorreva d’intorno ai lidi o alle foci dei fiumi per far pesca, indi felice sotto il povero tetto e contento del poco passava nell’ozio i suoi giorni. Sorgeva un’alta spelonca coperta di muschio marino: di qua scaturiva il fiume. Ora, quasi trofeo del tempo, giace interrata per la lunga serie degli anni. Questi antri segreti abitò il Terraneo Galeso, quel re del luogo che fa scaturire le acque. Quivi nel mezzo dell’estate, quando più forte è il caldo, venne Antigene dove l’opaca spelonca della rupe odorosa spira fresche e salubri aure e dove fremono raucamente le onde del limpido fiume; né la corrente mormora per lungo corso, imperocché raggirandosi tosto per quell’obliquo calle, lo ravvolge in piccolo labirinto.Già franto di forze, non appena quel vecchio si era seduto nel freddo antro e godeva dell’amena verzura, gli sembrò di vedere sollevarsi tra quelle piante acquatiche il dio del fiume, il quale tiene la fronte coronata di pioppo e di duplice canna. Quegli, preso da paura, stupì, non riconoscendo quel volto, né quel fiume tramutato in dio. E come di notte in un gran bosco si fanno innanzi al viandante dei fantasmi terribili a vedersi, incerto egli fa sosta e, spaventato, guarda fisso lo spettro, né prosegue il cammino, ma ritorce i passi. Allora il nume con tali detti si rivolge a lui pieno di molta paura: «O pescatore Antigene, fermati, io sono il dio di questa acqua, Galeso, che bagno queste felici campagne con l’onda di questo fiume. Io t’insegnerò le leggi dei pescatori e molti indizi, che restano segreti, io ti svelerò gli arcani. Gli dei mi spirano gran mente e cuore. Apprendi quel che dee farsi: Licida e Milcone abitatore delle acque leveranno a cielo il tuo nome nel tempo avvenire.» Così parla, e Antigene cessa di temere; che anzi volenterosamente si ferma ad udire quei suoni celesti e pende dalla bocca di quel dio. Di rincontro il fiume poscia comincia a parlare: «Quanto giace sotto il bianco cerchio della luna, tutto trae alimento dagli astri: di là piove fecondo umore, che addiviene causa e principio delle cose; di là hanno vita i pesci e le conchiglie dipinte dal murice. Quei semi, appena scorti dall’occhio, cadono dal cielo, finché per sopra del tempo diuturno si rassodano e la limpida acqua, scorrendo sulla solida forma, e l’argentina rugiada su gli scogli e i sassi, compone la conchiglia di breve guscio. Ora essa giace ignorata, né cresce dal suo piccolo seno: ascolta quindi, o Antigene, quali nuovi incrementi possa l’industria apprestarle e prontamente accogli il mio pensiero. Quando sorgono le prime sette umide Plejadi, tu nel fondo del mare Piccolo pianta dei lunghi pali: allora cade dal cielo la rugiada e abbondantemente l’umida brina feconda quei pini e quei sassi. Quando è luna piena, o l’Aurora si scioglie in stille di celeste rugiada, o l’umida aria in tenui gocciole, allora i piccoli semi, rappresi quelli umori, crescono e a poco a poco prendono forma. Né dopo lungo tempo la piccola conchiglia cresce, nutrita da succhi più abbondanti, e Madre Natura la ricopre di nera scorza. Ma quando allo spuntar del sole riluce Orione in mezzo alla costellazione, distacca le chiocciole dai pali e sommerge gli induriti globi in fondo del mare, specialmente là dove mormora il flusso e riflusso allo sbocco dei flutti del mare. Imperocché quelle onde, col loro agitarsi, faranno crescere le conchiglie. Ovvero le getterai giù nel mare Piccolo presso i ricurvi lidi: qui è sito acconcio alle conchiglie. Qui fra le salse onde, o meraviglia! zampillano acque dolci, e gioverà sempre alle chiocciole una vena d’acqua sorgiva in mezzo al mare. Il luogo si vede, né è troppo discosto.
14 Tommaso Niccolò d’Aquino, Delle delizie tarantine, Libro III, 19-25 – traduzione: “Tu poi, o Carducci, fortunatissimo tra tutti gli eroi, cui cingono le sacre insegne di Malta, tu, decoro della patria diletta, congiunto a me coi vincoli dell’amicizia e del sangue, tu dà l’ultima mano a quest’opera. Te lo chiede il bosco di Ebalia, Te lo chiedono i sacri penetrali del Galeso, ti invitano le selve maestose, e i dolci zefiri, e l’ombra che tempra i raggi estivi.
15 Jacopo Sannazaro, Elegie, Libro III, I, 73-74 – traduzione: “E subito andrai là, a segnare i confini delle terre salentine dove il Galeso bagna con l’acqua sua gli ebalici campi fecondi.
16 Agnolo Poliziano, Sylvae, Manto, 110 – traduzione: “Già risuonano, o Titiro, le pinete del falenteo Galeso, mentre tu ne ascolti il mormorio nel vuoto antro, e già le amabili selve decantano la tua Amarilli.
17 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Canto XXXI, 58.
18 Giovanni Pascoli, Liber de Poetis, Senex Corycius, I, 1-4 – traduzione: “Vide un’ape, e rattristato, fra sé e sé esclamò Virgilio: “È dunque questo il tuo inverno tiepido, Taranto? È questo l’angolo che mi sorride sopra ogni altra terra? È questo il dolce fiume Galeso, dal gelo ora sbarrato?
19 Adolfo Gandiglio, Prope Galaesum, 41-42 – traduzione: “Di lontano brillano di contorno al sole le torri di Taranto sopra la pineta del Galeso che di luci traluce.


BIBLIOGRAFIA

Author: Alessio Sacquegna

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