Rare le Terre

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A.I.

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Ho comprato uno smartphone nell’Agosto del 2016. Una luccicante estensione del mio cervello, connessa con il tumultuoso flusso della rete.

Liscio, sottile. Simbolo della ultramodernità contemporanea.

Un “essere” pensato da noi umani, ma per un certo verso non terreno, intangibile nelle sue capacità intellettuali.

Ultraterreno? Da dove viene un cellulare moderno? Certo dal design dei tecnici, comodamente seduti su sedie ergonomiche, con briciole di cracker sul fondo dei maglioni.

Certo da capannoni asettici, operai in tuta che osservano, sfiorano e ascoltano macchine che sembrano andare avanti da sé.

E i materiali di cui è composto? Hanno una storia, una geografia ben definita?

Beh la plastica della cover e dei tasti laterali, lo schermo in vetro sono facilmente identificabili, rappresentano la realtà del progresso umano, le solide basi dell’Antropocene. Ma l’interno del nostro amato cellulare è una miniera. Elementi ambiti da tutte le nazioni si nascondono nei chip.

In effetti, la quasi totalità della tecnologia odierna si basa su questi materiali.

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Dai già citati telefoni ai tablet, dai dispositivi militari a quelli medici, nulla di ciò che etichettiamo come tecnologia sembra essere slegato da queste materie.

La loro estrazione è un “lavoro sporco”, perché si utilizzano acidi piuttosto forti, basi, solventi; l’intero processo innalza il rischio per i lavoratori di respirare polveri radioattive.

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Nella tavola periodica, sono gli elementi che compaiono in basso, staccati dal resto degli altri, nella prima riga. Sono i Lantanidi, insieme a Scandio, Yttrio e Litio. Un tipico cellulare touch può contenere (in quantità inferiori al grammo): Europio, Cerio, Neodimio, Ittrio, Terbio, ognuno dei quali non ha nessuna funzione biologica ed è spesso tossico per umani e ambiente. Nelle batterie invece possiamo annoverare il Litio, essenziale per l’industria dell’auto elettrica.

La corsa al futuro dell’umanità sembra essere legata in modo inestricabile alla sorte di questi materiali. Che sono pochi, distribuiti in modo poco omogeneo, e poco riciclati. Il 14 % ritorna nel circolo del sangue irrefrenabile dei consumi. Il resto rimane nascosto nei cellulari che abbiamo abbandonato, oppure sepolto nelle discariche che punteggiano il suolo del pianeta.

La gallina dalle uova rare

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Da www.businessinsader.com

Almeno il 95% di questi elementi viene estratto in Cina, Paese che è diventato via via più avaro di queste risorse negli ultimi anni, nei confronti degli importatori come USA e Europa. La versione ufficiale è la risposta alle elevate pressioni ambientali che questo comparto esercita; in realtà, la tigre asiatica è ben conscia del valore che giace ai suoi piedi e in un futuro non troppo lontano potrebbe mettere alle corde qualunque concorrente in campo tecnologico. Sono già stabilite quote severissime e limitate di esportazione verso l’esterno, mentre il resto viene stoccato e destinato al solo uso interno.

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La Cina, insieme ad India e Pakistan, è inoltre la destinataria finale della quasi totalità dei rifiuti elettronici, che qui vengono stoccati e smontati a mano (con pochissime precauzioni). Si cerca quindi di recuperare una piccola percentuale di metalli preziosi e terre rare, mentre il resto viene gettato, con altissimi costi per gli ecosistemi e per la salute dei lavoratori.

Vista la loro scarsità, il recupero dovrebbe essere la priorità del settore, ma anche in questo caso non è certo tutto rose e fiori.

Un lavoro pubblicato da un team di scienziati olandesi e inglesi ha esplorato i costi ambientali di diversi tipi di recupero del neodimio, utilizzato nei magneti permanenti.

Come dice Chris Lee su arstechnica.com:

“Cosa possiamo imparare da questo (studio)? È difficile dirlo, perché le conclusioni sono piuttosto confuse. In primis, un processo di riciclo automatizzato, come il metodo di frantumazione, è molto probabile che sia poco conveniente a causa delle elevate perdite di neodimio, mentre disassemblare il cellulare è economico solo se gli stipendi sono bassi. In superficie quindi, il riciclo non sembra essre sicuramente la via migliore. Se consideriamo l’intero sistema produttivo di materiali come il neodimio, entrambe le opzioni analizzate possono essere sovrastate dalla riduzione degli impatti ambientali del processo estrattivo. L’inconstante rafforzamento della Cina delle sue (non molto restrittive) leggi in materia ambientale è probabilmente la barriera più alta. Inoltre, è probabile che con uno sforzo aggiuntivo, l’estrazione può essere resa ancora più “pulita” rispetto allo scenario di alta tecnologia discusso nello studio. Ma senza ricerche come queste, non sapremmo nemmeno da dove iniziare”.

da www.galleryhip.com

da www.galleryhip.com

Il circolo degli elementi rari

Le terre rare diventano ogni giorno più scarse, mentre aumenta vertiginosamente la richiesta da parte dell’industria tecnologica. Le alternative al monopolio cinese sono poche ed estremamente costose: l’estrazione di minerali in fondo all’oceano (Pacifico), ha altissimi costi tecnologici ed immani impatti ambientali, visto che non abbiamo le tecnologie per isolare il processo all’aria aperta, figurarsi nel mezzo acquatico.

Ciò che potrebbe mantenere a galla l’intero apparato tecnologico dell’umanità è un concetto che troppo lentamente, sta prendendo piede: la circolarità, di materie, energia e prodotti.

Se questo computer su cui sto scrivendo, dopo 10 anni di onorata carriera, non diventa un rifiuto, ma una fonte di materiali per l’industria tecnologica, non stiamo forse estraendo nuove risorse?

Sembrerebbe una risposta ovvia, ma solo da pochissimi anni il settore sta prendendo davvero coscienza del problema.

Se pensate che un futuro senza tecnologia non sarà un futuro, ma un ritorno ad epoche oscure, allora datevi una mossa.


Bibliografia

www.arstechnica.com: “Rare earth recycling: Is it worth it?

B. Sprecher, Y. Xiao, A. Walton, J. Speight, R. Harris, R. Kleijn, G. Visser, G. J. Kramer: “Life Cycle Inventory of the Production of Rare Earths and the Subsequent Production of NdFeB Rare Earth Permanent Magnets” Environ. Sci. Tchnol., 48 (7), pp 3951-3958

Author: Giuseppe Scandone

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