Il terrorismo e l’informazione

Cercare di inquadrare il fenomeno del terrorismo in una precisa definizione risulta essere un compito assai complesso e articolato, soprattutto se vengono analizzati i diversi episodi di rappresentazione della violenza. Benché la storia dell’umanità pullula di eventi eversivi e azioni efferate, questa estesa materia dalla difficile interpretazione si è imposta come allarmante problema pubblico all’interno della società contemporanea. Ciò accade perché è cambiato il sistema delle relazioni tra i diversi individui, nonché la linea etica e il pensiero del corpo sociale.

Osama Bin Laden, storico leader del movimento islamista sunnita paramilitare terroristico Al-Qaida. È il simbolo del terrorismo fondamentalista islamico.

Osama Bin Laden, storico leader del movimento islamista sunnita paramilitare terroristico Al-Qaida. È il simbolo del terrorismo fondamentalista islamico.

Artefici principali di questo mutamento sono i mezzi dell’informazione, che assumono un ruolo nevralgico nel processo di globalizzazione: giornali, cinema, radio, televisione e internet sono diventati uno strumento insostituibile, capaci di trasmettere in tempo reale le notizie e diffondere ovunque le immagini degli eventi cronistici. Durante il XX secolo hanno dato lustro del loro ampio potere persuasivo, informando e formando sterminate masse sociali. Basta considerare che sono stati lo strumento privilegiato per ampliare e consolidare il consenso attorno ai sistemi politici totalitari (la propaganda fascista e quella nazista, senza escludere lo stacanovismo di matrice bolscevica, e così via), ma hanno assunto un ruolo determinante anche all’interno dei regimi democratici, influenzando la vita quotidiana della gente (esempio lampante è il cinema statunitense, che prima ha avuto una funzione fondamentale nell’americanizzazione degli emigrati europei all’inizio del novecento, per poi istigare il mito dell’american way of life nei Paesi del blocco occidentale all’indomani della seconda guerra mondiale). Tuttavia i mezzi di comunicazione appaiono come la spada di Damocle sulla testa della società globalizzata, se messi in relazione al terrorismo: il loro giusto utilizzo è ugualmente proporzionato all’abuso del proprio potere. Infatti le organizzazioni terroristiche, oltre a causare l’attentato, provocando distruzione e morte ai danni di persone o di istituzioni, che altro non sono i simboli del sistema a cui muovono guerra, essi si prefiggono l’obiettivo di esercitare ricadute indirette sulla società, col fine ultimo di apportare un radicale cambiamento nello status quo politico, destabilizzando l’opinione pubblica tramite la risonanza mediatica della notizia.
Davanti agli eventi terroristici i mezzi d’informazione cadono in un superbo eccesso di sensazionalismo e di allarmismo, lasciando che il lettore si infervori e si consumi intorno ad un pericoloso effetto di isteria collettiva: per farla breve, i mass media diventano l’oggetto di una strategia della tensione. Nonostante ciò bisogna considerare che il terrorismo è una materia indefinibile a causa della sua capacità di trasformarsi continuamente, e dunque cambia anche il suo approccio con i mezzi d’informazione.

Herbert Marshall McLuhan, sociologo canadese.

Herbert Marshall McLuhan, sociologo canadese.

Proprio intorno a queste tematiche sono state prodotte una moltitudine di discussioni, che tuttavia non hanno concorso a formulare una metodologica etica giornalistica che facesse da stella polare in determinati episodi, nonostante l’apporto di numerosi studiosi, spaziando dagli storici agli scienziati dell’informazione e così via. Perciò questa rubrica nasce col presupposto di analizzare adeguatamente le diverse fonti in riguardo al tema del terrorismo e l’approccio coi mezzi dell’informazione: la prima sezione avrà il compito di approfondire le diverse osservazioni sulla definizione e sulla pertinenza storica, giuridica e mediatica del terrorismo, mentre nella seconda parte verranno esposti i vari episodi della violenza e la loro influenza mediatica sulla società.
Dunque è utile comprendere che il terrorismo è pura propaganda, poiché la violenza è solo uno strumento per perseguire lo scopo: per la serie, guardandola dagli occhi di un terrorista, il fine giustifica i mezzi. Una spiegazione più che esaustiva la offre il sociologo canadese Marshall McLuhan, in un’intervista rilasciata a Gino Fantuzzi per il quotidiano Il Tempo, in data 19 febbraio 1978, circa un mese prima del sequestro di Aldo Moro:

Senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo. Potrebbero esservi le bombe, potrebbe esserci l’hardware, ma il nuovo terrorismo è software, è elettronica. Perciò senza elettronica, niente terrorismo. In altre parole, i terroristi adoperano questa gigantesca arma che è l’elettronica, la quale poi è un’arma pubblica, è l’estensione dell’uomo. […] La prima cosa che una persona saggia dovrebbe fare mentre imperversa questa guerra, sarebbe quella di tirare via la spina, spegnere la luce, tagliare il circuito. […] Il fenomeno del terrorismo non è ben capito perché non sono studiati i media. […] Non si può vivere con l’elettricità e preservare la nostra civiltà, la nostra cultura.

In quel periodo l’esame di McLuhan non era isolato, poiché il giornalismo italiano affrontò ampiamente il tema del rapporto tra il fenomeno terroristico e i mass media; Si oscillava tra l’ipotesi mcluaniana del black out giornalistico e le tesi che appoggiavano gli operatori dell’informazione nel continuare a svolgere il loro esercizio professionale. Infatti, se da un lato i mezzi della comunicazione possono essere uno strumento che contribuisce ad alimentare una strategia di tensione, in determinate circostanze – come ad esempio lo stesso caso Moro – sono stati un’arma a doppio taglio per i terroristi, dove l’opinione pubblica si è mossa compatta e indignata, guardando con ripudio simili azioni. Ad ogni modo, in simili circostanze, potrebbero emergere altre forme di terrorismo, che mirano esclusivamente all’appiattimento dell’informazione, cercando di consolidare il proprio potere mediante leggi restrittive in chiave di sicurezza pubblica: questo è il caso del terrorismo di Stato. Da questa osservazione emerge l’incongruenza tra le diverse tipologie del fenomeno: l’indefinibilità del terrorismo può essere sintetizzato dell’aforisma anglosassone: one man’s terrorist is another man’s freedom fighter (un terrorista è un combattente della libertà per l’altra parte). Da questa idea (o convinzione, come è più preferibile interpretarla), prende spunto la dichiarazione di Andreas Baader, uno dei membri fondatori della Rote Armee Fraktion, un’organizzazione militante del terrorismo rosso sorta in Germania negli anni settanta: “faremo la guerra alla borghesia attraverso i titoli dei suoi giornali”.

Il ritrovamento all'interno del cofano di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani a Roma del cadavere di Aldo Moro, politico italiano ucciso dalle Brigate Rosse.

Il ritrovamento all’interno del cofano di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani a Roma del cadavere di Aldo Moro, politico italiano ucciso dalle Brigate Rosse.

Emerge chiaramente che l’informazione riveste un ruolo nevralgico nella società, che correlata alla narrazione e alla descrizione di un’evento terroristico incide pesantemente sull’opinione pubblica, influenzando i propri lettori attraverso un forte senso di tensione. Inoltre lo sviluppo delle teorie avanzate dai complottisti, formulati nel corso degli ultimi decenni, siano esse da considerarsi vere o false, possono combaciare con l’attuazione di nuove pratiche terroristiche, non più vincolate alle tradizionali opposizioni di cui si nutrono la politica e le religioni, bensì è strettamente connesso alle leggi che formulano il mercato. Un esempio potrebbero essere quelle teorie complottiste che insinuano la diffusione di nuove malattie e virus al solo scopo di incentivare gli introiti commerciali mediante la vendita di antibiotici delle grandi case farmaceutiche e chimiche. Perciò anche le ipotesi complottiste si affacciano alla necessità di strumentalizzare i mass media e di appiattire l’opinione pubblica mediante una strategia della tensione. Allora appare quasi allegorica l’ironica citazione del celebre comico italiano Claudio Bisio, quando descrive con sarcasmo il particolare rapporto che lo lega alla sua Bestia, un Macintosh che per lui incarna il vero terrorismo1, nonostante non sia semplice sbarazzarsene. Davanti agli eventi terroristici i mezzi d’informazione formano un’impressione della realtà per mezzo della ripercussione delle varie notizie, o presunte tali, arricchite da ulteriori dibattiti e polemiche nell’assemble politico e intellettuale. I media non sono ben preparati sulle complesse questioni della difesa, della sicurezza e del terrorismo, e a volte cedono a un sensazionalismo che può, in determinati casi, avere un effetto deleterio sulla conduzione degli interessi collettivi2. Resta da chiedersi tutt’al più quanto sia realmente dannosa l’assenza di un’etica giornalistica che sia capace di far prevalere il diritto/dovere d’informare senza incoraggiare un clima allarmista e nocivo per la difesa dell’opinione individuale.


NOTE

1 cit. Claudio Bisio: “Avevo chiamato Bestia il mio computer, e lui mi ridicolizzava con insulti, improperi, mi chiamava ‘crapa pelata’. Io uso un Macintosh, e mi terrorizzava: appena facevo una cazzata, aveva l’icona di una bomba con la miccia accesa e diceva: ‘grave errore, irreversibile, compromette il sistema’. E bisognava immediatamente fare qualcosa. Era vero terrorismo!”
2 S. Silvestri, Il terrorismo e le scelte poste all’informazione, in M. Carnavale (a cura di), Sicurezza e informazione, Ed. Sole 24 ore, Milano, 1991, pag. 82.

Author: Alessio Sacquegna

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