Le paludi costiere del Salento

La presenza degli odierni bacini palustri lungo le coste salentine, risale all’Olocene ed è dovuta principalmente alle oscillazioni del livello del mare che si sono verificate negli ultimi 10’000 anni. Tracce di tali oscillazioni, sia al di sopra che al di sotto della posizione attuale, si trovano lungo la costa adriatica meridionale della Puglia, tra Torre dell’Orso e Otranto. Qui sono stati riconosciuti quattro livelli di stazionamento riferibili all’Olocene: nel corso dell’innalzamento successivo all’ampia regressione würmiana, il livello del mare stazionò dapprima intorno all’isobata dei 7 metri, per risalire poi sino all’attuale quota di + 3 metri. Successivamente, due arretramenti consecutivi portarono il mare prima alla quota + 2 metri, poi circa in corrispondenza dell’attuale isobata + 4. Dati archeologici relativi alla regione costiera della Puglia suggeriscono che quest’ultimo episodio si sia verificato circa 2500 anni da oggi; successivamente ha fatto seguito l’innalzamento che ha portato il livello del mare sino alla posizione attuale.

Palude del capitano

Palude del Capitano. Ph Alessia Di Seclì.

Formazione dei bacini palustri

L’origine delle paludi costiere pugliesi è principalmente collegata all’ innalzamento del livello marino durante l’Olocene. La formazione dei bacini non è avvenuta simultaneamente lungo tutta la costa: in particolare altri fattori contributivi del fenomeno sono stati la natura e la morfologia del substrato, unite alle condizioni meteomarine locali. Oltre a ciò, l’evoluzione delle paludi è stato fortemente condizionato dal fattore antropico. Prendendo in considerazione la costa tra San Cataldo e Otranto, essa all’inizio dell’Olocene era estesa pochi chilometri a largo della costa odierna. Tale trasgressione è più evidente oggi dove la pendenza è minore, cioè nelle aree di fronte le Cesine e i laghi Alimini. L’innalzamento del livello marino comportò modificazioni dell’idrologia sotterranea, producendo l’innalzamento della falda e la susseguente creazione di numerosi bacini palustri nelle depressioni site nei pressi della costa. La formazione di estesi cordoni dunari e le caratteristiche dei suoli, a prevalenza argillosa e arenitica, hanno favorito il ristagno superficiale dell’acqua. Sulla fascia costiera tra Casalabate e Cesine, sul litorale adriatico della provincia di Lecce, costituita da un pianoro elevato pochi metri sul mare ed esteso verso l’entroterra per alcune centinaia di metri, la formazione delle paludi è stata potenziata dal fenomeno dell’ipercarsismo. Il paesaggio è caratterizzato infatti da numerose doline di crollo, allineate lungo le principali direttrici tettoniche, sovente colmate da suoli, detriti e sabbie eoliche o, con falda emergente, ospitanti paludi ed acquitrini. La palude delle Cesine è l’area maggiormente interessata dai sinkholes: dalla coalescenza di più doline si formano depressioni estese sino a migliaia di metri quadri; queste sono separate dal mare da diaframmi di roccia calcarea instabile e intensamente carsificata, il cui collasso può provocare la formazione di veri e propri canali costieri. Laddove la coalescenza delle doline avvenga secondo sistemi di fratture trasversali alla costa, tali fenomeni determineranno la formazione di insenature.

Veduta aerea della riserva statale “Le Cesine”. Dal sito www.urkaonline.it

Le paludi nelle fonti storiche

In vari documenti antichi, si trovano riferimenti alla presenza delle paludi in Terra d’Otranto e si evince come, nel corso dei secoli, esse non abbiano avuto sempre un’influenza negativa sull’uomo e sulle attività umane. Di questi documenti, il primo in assoluto è del 16 maggio 1450; si tratta di una convenzione, tramite la quale il barone Giovanni dell’Acaya concedeva agli abitanti della città di Lecce di tagliare, asportare e bruciare canne da numerose paludi presenti sul territorio. Oltre a rappresentare un importante elemento dell’economia locale, all’epoca le paludi erano oggetto di scambi e transazioni che ne sottolineavano il valore.
Tra la prima e la seconda metà del ‘500, quando si concretizzò il programma di costruzione delle torri costiere a difesa dalle continue incursioni dei turchi (per approfondire tale argomento: Le torri costiere in Terra d’Otranto, parte prima e parte seconda), la presenza di queste paludi fu ritenuta un elemento essenziale all’interno di tale programma, tanto che proprio in corrispondenza delle paludi non furono costruite torri di difesa costiere. Da alcuni documenti del 1564, che riguardano Gian Giacomo dell’Acaya, barone dell’omonimo feudo, sappiamo che le paludi erano spesso utilizzate a scopo agricolo e venatorio, tutt’altro che zone abbandonate o improduttive. Si trattava quindi di formazioni paludose che non costituivano un serio pericolo per l’uomo.
Quasi un secolo dopo, il Marciano descrive un paesaggio che stava assumendo una ben precisa connotazione ed il cui processo evolutivo contemplava solo traguardi negativi, quali il progressivo restringimento della superficie destinata alle colture ed il dissennato disboscamento. Questi fenomeni di deterioramento ambientale si saranno certamente aggravati per la crisi economica e demografica del ‘600. Ancora nel ‘700, tuttavia, forse in seguito ad una qualche ripresa economica e demografica, l’area in questione, ossia quella tra i centri abitati e la costa, era intensamente coltivata, anche in relazione alle paludi. Da un documento del 1755, sappiamo che in diverse masserie della zona si coltivava il lino e, nelle stesse masserie, le attività agrarie erano abbastanza intense e redditizie; la presenza delle paludi, quindi, almeno fino al XVIII secolo, non costituì un fattore di repulsività. Nel corso dell’800, invece, la situazione andò peggiorando ed i problemi, soprattutto igienici, connessi con la presenza di queste lande paludose, divennero sempre crescenti. La maggior parte della fascia costiera salentina, esclusa l’area adriatica a costa alta che da Porto Badisco arriva fino al capo di Leuca, era orlata di paludi (che ricoprivano anche ampie superfici interne alla costa) e letteralmente infestata da esalazioni malariche. 

Costa Adriatica Rizzi Zannoni con Lecce

La fascia adriatica nell’Atlante di Rizzi Zannoni (1808), occupata quasi interamente da bacini palustri ed estese macchie. Dal sito www.bncf.firenze.sbn.it

L’impaludamento, nell’Ottocento in modo preminente, interessava nel suo insieme, tra aree paludose e terreno circostante abbandonato e incolto per via della malaria, circa 50000 ettari. In questo scenario di degrado generale, il problema forse più grave era rappresentato dalla malaria che, per tutto l’Ottocento, e buona parte del primo Novecento, rese l’insediamento di residenze contadine stabili nelle aree costiere quasi impossibile. La situazione non era meno grave lungo la costa di Brindisi e di Taranto. L’area portuale brindisina, che nei decenni settecenteschi era stata lasciata imputridire miseramente, “aveva dato vita a paludi estesissime che circondavano il paese, e riempivano l’aria di esalazioni pestilenziali, per cui non esisteva più un volto roseo in Brindisi” (sulla situazione brindisina nel XVIII secolo confronta Il gran tour settecentesco in Terra d’Otranto, parte terza); Anche la città di Taranto subì gli effetti delle esalazioni palustri sino alla fine dell’Ottocento. Lo stagno Foggione, a circa tre chilometri dal centro abitato, dava luogo “allo sviluppo di miasmi che infettavano le ubertose campagne circostanti e talune volte facevano sentire i loro tristi effetti sino all’abitato” (Orlando, 1885). Per cui il centro ionico, soprattutto verso la metà del XIX secolo, appariva come un borgo malsano e dall’aria pesante, in particolare nella stagione tardo-estiva, quando l’influsso della malaria era più forte.

Le bonifiche dall’unità d’Italia fino ai nostri giorni

A partire dal 1860, fino ai nostri giorni, ebbe inizio una profonda opera di risanamento, per il recupero di tutti quei territori coperti dalle paludi ed infestati dalla malaria; Le primissime azioni risalgono al 1860, soprattutto a carico di privati cittadini. Altre iniziative di risanamento territoriale ad opera di privati si susseguirono per buon parte del XIX secolo, specialmente nella parte meridionale della regione salentina, ma non sempre ebbero esito positivo. Le bonifiche avanzarono a stento fino al 1917, anno in cui si ebbe il primo intervento risanatore, compiuto dall’Opera Nazionale Combattenti, cui seguì tutta una serie di azioni antipaludistiche coordinate dallo Stato, in particolar modo negli anni compresi tra le due guerre mondiali. Proprio in quegli anni, infatti, si inserisce l’approvazione della legge 3267/1923, la cosiddetta “Bonifica Integrale”, che “avviò un profondo processo di ristrutturazione agraria, specialmente nell’ambito delle aree produttivamente più marginali ed ingrate, di natura calcarea, disdegnate dall’uomo, perché aree di intensa diffusione malarica e del paludismo”. Intorno agli anni Venti, si inserirono anche gli interventi di bonifica intrapresi dall’Ente di Irrigazione e Trasformazione di Puglia e Lucania. Gli sforzi effettuati a cavallo dei due conflitti mondiali, nel campo delle bonifiche integrali, cui seguì l’estensione al territorio pugliese dei benefici della Legge Sila (con la Legge-stralcio dell’ottobre del 1950), determinarono un profondo cambiamento nel panorama socio-economico locale. La progressiva scomparsa della malaria, l’avvio della ristrutturazione agro-fondiaria, la costruzione di importanti assi viari, lo sviluppo di pratiche irrigue, insieme all’ infrastrutturazione elettrica ed idrica segnarono, quindi, un primo importante passo verso il successivo potenziamento degli interventi migliorativi dell’assetto territoriale, intrapresi nel periodo post-fascista dai governi repubblicani.

Bonifica della Stornara

Mappa del progetto di bonifica idraulica della Stornara (Taranto) dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti), 1925. Da: Corvaglia E., Scionti M., Il piano introvabile:  architettura e urbanistica nella Puglia fascista, edizioni Dedalo, Bari, 1985.

Il futuro delle paludi

La superficie occupata da bacini lacustri è drammaticamente diminuita negli ultimi 100 anni a seguito delle imponenti bonifiche effettuate. Solo poche zone sono rimaste tali, in virtù di leggi internazionali, che proteggono le paludi come aree ad alto interesse naturalistico (Conferenza di Ramsar, 1991). Nel Salento sono state istituite numerose aree protette come le Cesine, Palude del Conte , Torre Guaceto, che preservano piccole aree costiere. L’impatto antropico rappresenta il fattore più rischioso per la loro sopravvivenza: abusivismo e inquinamento delle matrici ambientali in primis, ma anche ulteriori bonifiche ne compromettono l’esistenza. Bisogna tenere in conto però che le aree umide, oltre a rappresentare un habitat di alto valore per biodiversità, sono strategiche per il controllo del dissesto idrologico: ricoprono infatti un’importante funzione nell’attenuazione e regolazione dei fenomeni naturali come le piene dei fiumi. Le paludi lungo i corsi d’acqua, ad esempio, hanno un effetto a “spugna”: raccolgono le acque durante le piene, diluendo inquinanti e rallentando il deflusso delle acque e riducendo il rischio di alluvioni; restituiscono poi, durante i periodi di magra, parte delle acque accumulate. Sono, inoltre, importanti serbatoi per le falde acquifere. Altre funzioni non meno importanti:

  • la vegetazione palustre assimila quantitativi ingenti di nutrienti (composti di P, N) e crea condizioni favorevoli per la decomposizione microbica della sostanza organica;
  • le zone umide, soprattutto costiere, sono estremamente importanti per la riproduzione dei pesci e di conseguenza per la pesca. Lagune e laghi costieri, inoltre, ricoprono grande importanza per l’ittiocoltura o la molluscocoltura;
  • le zone umide sono utilizzate per svariate attività, tra cui il birdwatching ma soprattutto attività culturali e/o scientifiche. Ad esempio, dallo studio dei profili pollinici nelle torbiere è possibile ricostruire le vicende ecologiche, climatiche ed evolutive del territorio in cui questi ambienti sono situati.

Impegno degli amministratori pubblici del Salento dovrebbe essere quindi operare per la salvaguardia e il ripristino di questi ambienti, nell’ ottica dello sviluppo sostenibile del territorio.

Veduta del lago Alimini Grande. Da www.wikipedia.org


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Author: Giuseppe Scandone

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